Opinioni

La parabola di Julian il vinto. Assange e un mondo già cambiato

Vittorio E. Parsi sabato 13 aprile 2019

Né angelo né demone», per parafrasare il titolo di un fortunato romanzo contemporaneo di Dan Brown. Julian Assange non è il Robin Hood della rete, il paladino senza macchia e senza paura che ha agito solo nel nome della libertà di informazione, semplicisticamente "cantato" da Alessandro Di Battista, e neppure il sicario digitale di Vladimir Putin, che gli orfani inconsolabili di Hillary Clinton hanno dipinto nel corso degli ultimi due anni.

È un hacker di grandissimo livello, un nerd della trasgressione che è finito travolto dal suo stesso successo. Uno che ha manipolato le sue fonti, si pensi al soldato Manning (ora miss Chelsea), con assai poca attenzione alla loro sorte e che molto probabilmente è finito manipolato a sua volta. Lo attesta la clamorosa solitudine, il roboante silenzio, che ha sostanzialmente circondato il suo arresto. Trascinato di peso e in catene fuori dalla grotta diplomatica ecuadoriana in cui per sette anni era vissuto, sempre più reietto, inviso persino ai suoi ospiti, un uomo con una barba lunga e canuta degna di un personaggio da feuilleton ottocentesco, un po’ abate Faria, un po’ Maschera di ferro… ma assai meno tragico dei caratteri inventati dalla penna geniale di Alexandre Dumas, declassato dall’oblio di una lunga eclissi, mentre il mondo andava avanti e l’hackeraggio russo, i furti cinesi di big data, i timori sulla imperforabilità – accidentale o su comando politico di Xi – della rete 5G progressivamente riducevano la portata di quello che fu lo "scandalo WikiLeaks".

Non c’è nulla che meglio attesti il declino della grandezza del suo crimine del capo di imputazione con cui la giustizia americana lo persegue: non più spionaggio in base alla legge del 1917 (promulgata nel culmine della Prima guerra mondiale), ma più modestamente per essersi introdotto senza permesso negli altrui computer: dal "fine pena: mai" del Conte di Montecristo a 5 anni al massimo di detenzione, roba da borseggiatori o topi di appartamento.

C’è chi ha voluto vedere in questo l’occhio di riguardo dell’America di Trump, che nella lunga corsa alla Casa Bianca si avvantaggiò oggettivamente del furto di notizie operato da Assange. La realtà è che sono semplicemente cambiati i tempi e con essi le minacce. E parecchio anche lo stile: allora avevamo Barack Obama, che mentre sorrideva a tutti ordinava ai suoi servizi di spiare le telefonate e la corrispondenza elettronica della signora Merkel.

Oggi abbiamo Donald Trump, che insulta chiunque via twitter… e sullo sfondo c’è l’immemore popolo della rete, al cui confronto la pesciolina Doris del cartoon Nemo ha una memoria da elefante, che sbugiarda chi crede che "la rete non perdona", perché "ognuno resta inchiodato a ciò che dice". Come no, basti pensare ai felpati energumeni di casa nostra che promettono tutto e il contrario di tutto, nella consapevolezza dell’immunità digitale, tanto basta una querela, semmai, per zittire chi ancora la memoria ce l’ha.

Il tempo non è galantuomo, caro Assange, anche perché ha cambiato la sua dimensione e il suo scorrere, come la prima fotografia di un buco nero ci ha rammentato appena un paio di giorni fa. E la rivoluzione informatica ha contribuito a questa rivoluzione tanto quanto la teoria della relatività nella fisica: anzi, nella percezione delle persone comuni anche di più. Quindi tutto bene? Non proprio. Perché comunque quella fuga di notizie rese un oggettivo servigio alla libertà di informazione, perché in un’epoca come l’attuale nella quale quattro farabutti qualunque possono spingere al suicido una ragazzina fragile pubblicando foto osé sulla rete, andrebbe ricordato che Assange rivelò segreti di Stato, senza alla fine mettere in pericolo altro che la menzogna e l’ipocrisia.

Paradossalmente, persino la maggior sicurezza della rete è debitrice ad Assange, insieme alla consapevolezza del carattere comunque temporaneo della sua imperforabilità, perché ogni formaggio ha il suo topo e ogni mela il suo baco. Dopo tutto, Julian Assange è un vinto della storia, non un vincitore. Molti oggi gridano 'guai ai vinti', novelli Brenno nostrani. Per i vinti sarebbe forse meglio invocare la misericordia, se non il perdono: o perlomeno che all’oblio della fama si accompagni anche quello giudiziario per un crimine, se mai lo fu davvero, che apparve grandioso perché effettivamente si configurò come tale, ma che certo non fu efferato né prepotente.