Opinioni

Il caso Fondiaria-Sai, la crisi dei Ligresti e l'«etica» di Mediobanca. La parabola di «don Salvatore» specchio di una decadenza

Giancarlo Galli sabato 4 agosto 2012
Quella di Salvatore Ligresti ha tutte le caratteristiche di una vicenda dell’italico capitalismo "di relazione", iniziata mezzo secolo fa e prossima a una salutare resa dei conti. Con l’uomo, in più occasioni definito Signore di Milano e fra i maggiori finanzieri d’Italia, costretto a gettare la spugna essendo alle prese con una magistratura decisa a fare definitiva chiarezza sul suo discusso operato. Non dimenticando che nelle stagioni di Mani Pulite, già conobbe carcere e condanne.Per meglio inquadrare il presente è indispensabile ricostruire l’itinerario di colui che amava farsi chiamare "don Salvatore", alla maniera iberica e sicula; nato nel 1932 a Paternò (Catania) in famiglia benestante, negli anni Cinquanta sale al Nord, laureandosi in ingegneria. Sottotenente dell’aeronautica è assegnato all’aeroporto di Linate. Si innamora e sposa la timida Giorgina Susini, figlia dell’architetto Limietta, capo del Provveditorato alle opere pubbliche. Trova fra i "compaesani" Michelangelo Virgillito, scatenato (e vincente) operatore di Borsa. Si aggrega e inizia la scalata ai santuari del potere; per il professionale cinismo affascina quasi in contemporanea il dominus di Mediobanca Enrico Cuccia e il rampante leader socialista Bettino Craxi. Il suo capolavoro è conciliare le due "prime donne" della politica e della finanza. Dietro le quinte prende a giocare in proprio. Con cento miliardi di lire di imperscrutabile origine prende il controllo della Sai (Assicurazioni), che successivamente unirà alla fiorentina Fondiaria, creando un colosso secondo solo alle Generali di Trieste. Ci si interroga: perché Cuccia che nutre per le Generali amore sconfinato, ha consentito la nascita di un secondo polo delle polizze? Risposta: avendo trovato per Ligresti una poltrona in Mediobanca, ha "tutto sotto controllo".Senonché Enrico Cuccia muore. È il duemila, e Ligresti si scopre in deficit di protezione, essendo già scomparso anche Bettino Craxi, un’incurabile malattia ha però tolto di mezzo pure il bravo, intelligente e onestissimo Nino Andreatta, che per il finanziere aveva dei giudizi sferzanti, pesanti come pietre: "Non mi fido". Rifacendosi agli antichi per altro mai chiariti legami, Ligresti cerca di arrivare al cuore di Vincenzo Maranghi, ora al vertice di Mediobanca. Né si piacciono né si intendono. Ligresti fa rotta su Roma, favorendo le manovre che si svilupperanno per la conquista di una Mediobanca sempre meno autorevole. Don Salvatore ha parecchi assi nella manica. Se le condanne gli impediscono di assumere cariche operative, può schierare i figli: Paolo, Giulia e Lionella che si muovono a bacchetta quando papà comanda. Sorvolando e dimenticando proprio quel che Cuccia predicava e raccomandava: in finanza le dinastie sono destinate a un inesorabile declino. Suggerendogli la lettura dei Buddenbrook di Thomas Mann, che don Salvatore ha invece snobbato. Altra la sua filosofia: arricchirsi e schierare discendenti e affini, imponendone la presenza in miriade di consigli di amministrazione, familiari e no.Lui il patriarca indomito a tirare le fila. La crisi esplosa nel 2008 coglie il clan (cui per altro non mancano appoggi che vengono da lontano, dai tempi di Cuccia e Craxi) in pieno guado, inserito nell’appetitoso filone edilizio che offre la prospettiva dell’Expo 2015. Con la gelata del mercato immobiliare, però, frettolosamente vende, mentre il polo assicurativo Fondiaria-Sai annaspa. Si sussurra che don Salvatore smobilitando partecipazioni abbia rimpinguato casseforti in lidi lontani. La magistratura, lenta eppure inesorabile, si appresta a verificare. Comunque siamo al redde rationem e bisogna vendere anche Fondiaria-Sai, da gallina dalle uova d’oro divenuta sterile per lo sfruttamento intensivo delle sue risorse. Iniziano le trattative con Unipol ed è gioco a rimpiattino tra proposte, controproposte. Tuttavia don Salvatore e famiglia paiono disporre di parecchie frecce avvelenate. In Mediobanca, carica di partecipazioni più fragili (le azioni Generali, nucleo forte del portafoglio, sono scese da 44 a 10 euro), che redditizie, tant’è che il titolo è precipitato da 19 a meno di 3 euro, l’onesto amministratore Alberto Nagel, è costretto a trattare con i Ligresti, vantando oltretutto crediti per un miliardo. Quindi dialoga cavallerescamente. Turbato dagli atteggiamenti del patriarca che arriva a minacciare il suicidio prova (stando alle cronache), a uscire dall’impasse accettando (o fingendo) di offrire alla famiglia una paccata di milioni, 40 o 45, affinché non ostacoli la cessione di Fondiaria Sai a Unipol. Lecito, illecito, vilipendio dell’azionariato minore? La Consob (tardivamente) reagisce. Colpo di scena: Lionella Ligresti sbandiera un foglietto dove incautamente Nagel avrebbe apposto la propria firma.Affermazione di un diritto o mascherato ricatto? Di sicuro, sono venuti al pettine i nodi degli incestuosi rapporti coltivati in Mediobanca, santa sanctorum laico. Con una sostanziale differenza rispetto all’era Cuccia. Il Grande Vecchio (talmente probo da vivere in casa da affitto) aveva nell’immediato dopoguerra concepito Mediobanca per dare una scossa alla imprenditorialità italiana. Dopo di lui, la decadenza, in parallelo con quella del nostro sistema produttivo. Alberto Nagel cerca di risalire la china sgombrando le macerie di un terreno disseminato da mine. Dei Ligresti, e non solo. Vi è infatti un’intera finanza familistica e speculativa, opportunistica e parassitaria da richiamare alla responsabilità. Possibilmente senza né sconti né occulte compiacenze.