Le persone restano al centro. La pagina bianca del post Covid
Potrebbe diventare uno spartiacque. Come le grandi guerre o, per un po’ di tempo, l’11 settembre 2001 per l’attacco alle Torri gemelle. Forse si dirà “prima” o “dopo” la pandemia, a indicare lo stacco tra il “pre”, che crediamo di conoscere bene, e il “post” pagina bianca su cui pochi, in apparenza, oggi sono disposti a scrivere.
Perché di Covid non si discute quasi più. Lo fanno i no vax o chi in varia misura cerca rivincite sulle ingiuste, secondo loro, privazioni della libertà nei due anni e mezzo di paura. Lo stesso annuncio dell’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) che l’emergenza mondiale è finita non ha avuto grande risalto, né sui media, né nel dibattito familiare. Probabilmente dipende dal poco tempo passato dalla fase acuta, o dalla consapevolezza di aver commesso tanti errori o, soprattutto, dal dover fare i conti con una domanda che ci costringe a guardarci dentro: come siamo cambiati?
Anche il mondo dell’arte pare in affanno: pochi romanzi e film, ancora meno dibattiti culturali, qualche timido richiamo nella musica pop. Meglio, molto meglio riprendere tutto come se niente fosse successo. Peccato che non si possa. E non serve una laurea in sociologia per documentarlo, è sufficiente l’osservazione della vita quotidiana. Pensiamo alla crescita del lavoro da casa, positivo sotto tanti aspetti ma non per le relazioni personali, pensiamo a un’intera generazione di ragazzi penalizzati dalla pur necessaria didattica a distanza, pensiamo al timore inconscio nel costruire nuovi rapporti.
Nel dubbio abbiamo provato a trasformare la fragilità in valore, trattando da sinonimi l’umanità e la paura, che come dato comune hanno solo la certezza della non autosufficienza. Un disagio che nel periodo di lockdown ha assunto l’aspetto tragico degli anziani isolati nelle Rsa e dei morti seppelliti senza la carezza di un parente. Erano i giorni degli slogan-mantra: andrà tutto bene, nessuno si salva da solo, siamo tutti sulla stessa barca. La tempesta ha smascherato la nostra vulnerabilità, rovesciando o comunque modificando l’agenda dei valori, richiamandoci al vero essenziale, costringendoci alle domande sul senso del vivere. Ora di nuovo silenziate. L’impressione è che si sia tornati all’ante, che i buoni propositi di allora siano rimasti tali, che nei programmi delle nostre giornate domini la corsa all’indietro, a riempire nuovamente di cose ogni casella del programma personale. Ripeto: non si tratta di dati scientifici ma di osservazione della realtà. Propongono invece riscontri su cui riflettere gli studi, dell’Oms stesso o pubblicati su riviste specializzate come Plos one, che parlano di maturità interrotta nei giovani con aumento dell’introversione, delle chiusure agli altri, dell’aggressività. Di pari passo crescono le richieste a Caritas e San Vincenzo, nonché il ricorso ai centri d’ascolto.
Ed è il rovescio della medaglia, quello che chiama in causa l’esercito disarmato della solidarietà, fatto di prossimità, di attenzione ai bisogni quotidiani, di centralità degli ultimi. La Chiesa non è si è mai fermata, puntando sulla creatività pastorale nei periodi di buia emergenza, nella denuncia e nella lotta alle sperequazioni durante e dopo, nella centralità della persona sempre, senza mai arrendersi al distacco e all’isolamento. Vanno in questo senso le nuove indicazioni, diffuse ieri dalla presidenza della Cei, che a partire dall’annuncio della fine dell’emergenza chiama a un ritorno alla normalità della vita ecclesiale, compreso un minor ricorso, anzi se possibile la cessazione, delle Messe in streaming. Non si tratta, ovviamente di “criminalizzare” rete e social media ma di recuperare il senso più autentico della celebrazione, che è comunitario. Stare insieme dunque, anche fisicamente. Sull’esempio degli apostoli, la cui familiarità con il Signore, ha ricordato più volte papa Francesco, era sempre nel segno della condivisione, a cominciare dalla tavola. E poi c’è la dimensione dell’incontro, dell’ascolto, del confrontarsi per crescere insieme, del pregare l’uno per l’altro. Il tempo speso con i fratelli non è mai perso, e se viene donato nel nome di Gesù, ci viene restituito carico di benedizioni. È questa in fondo la lezione della pandemia: pre o post che sia, al centro ci sono le persone, da accompagnare e sostenere. Sempre. Valeva “prima”, vale a maggior ragione adesso. Nel “dopo”, che poi è un oggi da costruire giorno per giorno.