Opinioni

Libia, Daesh, Usa e diplomazia italiana. La pacificazione non è pacifica

Giorgio Ferrari martedì 15 dicembre 2015
«La coalizione anti-Daesh deve impegnarsi maggiormente nella lotta ai terroristi e anche l’Italia è pronta a fare di più». Sono parole di Barack Obama nel suo intervento al Pentagono dopo la riunione del Consiglio di sicurezza, in quello che appare come un ingaggio in piena regola. Parole che confermano come di questi tempi persino passi di pace possano preludere ad altri passi di guerra. Così è per l’accordo raggiunto a Roma, domenica, sulla formazione di un governo di unità nazionale in Libia che si dovrà insediare a Tripoli fra quaranta giorni previo un cessate il fuoco immediato fra le fazioni, l’apertura di un corridoio umanitario e – prima di tutto – la firma formale attesa per domani a Skihrat in Marocco è indiscutibilmente un successo diplomatico da accreditare in egual misura ai Paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Roma: Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Giordania, Marocco, Russia, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Stati Uniti, cui vanno aggiunti l’Onu, l’Unione Europea, la Lega Araba e l’Unione Africana. Ma sarebbe strano, miope e ingeneroso non riconoscere al nostro governo, in particolar modo al ministro Gentiloni, un ruolo e una determinazione decisiva nel conseguimento di un risultato che per lunghi mesi è apparso irraggiungibile sotto le spinte centrifughe non solo delle “due Libie” in lotta (quella di Tripoli e quella di Tobruk, che godeva del riconoscimento internazionale), ma anche e soprattutto delle tante fazioni tribali che dalla morte di Gheddafi hanno preso in ostaggio il Paese nordafricano e impedito con la violenza e, soprattutto, con una sconcertante sordità politica ogni sforzo per trarre l’ex colonia italiana dalla palude di un’interminabile guerra civile.  Il risultato è tuttora sotto i nostri occhi: il Fezzan, il vasto scatolone di sabbia a sud della Cirenaica e della Tripolitania, è divenuto in breve un vasto corridoio di transito per ogni tipo di mercato, da quello delle armi alla droga, da quello degli organi umani a quello dei terroristi. Non bastasse, la fragilità delle frontiere, l’assoluta assenza di controllo del territorio tipica di un Paese nel caos politico e istituzionale ha favorito l’ingresso di innumerevoli manipoli di militanti del Daesh, molti dei quali in fuga dalla Siria e dall’Iraq dopo che le operazioni di terra, mare e cielo russe e le incursioni francesi e britanniche avevano sfoltito i ranghi dei jihadisti fedeli al sedicente califfo. Il Daesh – è fatto conclamato – si è insediato a Sirte e a Derna, a due passi dagli impianti petroliferi di Adjabiya e Ras Lanuf, ghiotto boccone per le casse del Califfato, che sulla vendita a basso prezzo del greggio siro-iracheno avevano realizzato un giro d’affari di una cinquantina di milioni di dollari al mese (grazie anche alla connivente partecipazione di alcuni Paesi confinanti che formalmente si dichiaravano in guerra con il capo jihadista, salvo poi remunerarlo per il suo petrolio a prezzi di realizzo).  E forse proprio la minaccia diretta e sempre più insistente del Daesh – è solo di ieri la notizia della decapitazione a Sirte di una donna marocchina accusata dalla Corte islamica nientemeno che di “stregoneria” – ha indotto le fazioni in campo ad accettare quel compromesso che la lunga (e non limpidissima) mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino León aveva sempre sfiorato e mai agguantato. «L’obiettivo – recita il documento conclusivo – è costruire un Paese sovrano, integro, coeso e senza influenze esterne». «L’Italia – ha ricordato il segretario di Stato americano John Kerry – è la prima a dover gestire questo impegno in Libia: chi, all’interno come all’esterno, volesse minare l’intesa raggiunta ne pagherà il prezzo». Aggiunge Obama: «Così come gli Usa stanno facendo di più in questa lotta, così come i nostri alleati Francia, Germania, Gran Bretagna, Australia e Italia stanno facendo di più, gli altri facciano lo stesso».  Ciò detto, due considerazioni s’impongono. L’accordo raggiunto è molto fragile: pensare che le fazioni in campo e in lotta da quattro anni si pacifichino all’istante e depongano le armi accettando di buon grado un governo con sede a Tripoli quando la Cirenaica da sempre spinge per una secessione o comunque una balcanizzazione della Libia è davvero un azzardo: come farà il nuovo esecutivo a insediarsi e a far rispettare la propria autorità senza un esercito, una polizia, un controllo reale del territorio? In secondo luogo il successo stesso delle diplomazie che hanno partecipato alla Conferenza di Roma rivela in filigrana la strisciante umiliazione che – questa sì – accomuna tutte le fazioni libiche: quella cioè di vedersi imporre un modello di unità nazionale promosso e sostenuto solo da stranieri (qualcuno già parla di neocolonialismo) e molto poco sentito dai libici stessi, il cui tasso di discordia è pari solo all’orgoglio individuale. Anche per questo, pur di fronte a eccezionali passi in avanti, siamo ancora lontani da un’alba di pace.