Ecologia & diritto. La «nuova» tutela dell'ambiente dalla Costituzione alla mentalità
La recente riforma degli articoli 9 e 41 della nostra Carta ha inserito tra i princìpi della Repubblica un concetto ormai condiviso. Ma l’idea di sviluppo sostenibile va ancora chiarita
Nei commenti alla riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione (legge 11 febbraio 2022, ndr), che hanno introdotto la tutela dell’ambiente nel testo costituzionale, è prevalsa finora, con alcune eccezioni, la solita impostazione novista ed enfatica: l’ambiente e l’ecosistema trovano ora una piena tutela costituzionale che viene data anche alle nuove generazioni. Il futuro, ha detto qualcuno, è entrato nella nostra Costituzione. Chiunque pratica la tematica ambientale dal punto di vista giuridico sa che queste tutele costituzionali erano già in vigore da tempo, essendo state ricavate dalla Corte Costituzionale dalla espansione di altri princìpi costituzionali, come la salute e il paesaggio. Si era verificato, per l’ambiente in modo emblematico, il fenomeno per cui, quando la coscienza civile ha maturato un nuovo valore, le Corti trovano modo di affermarne la vigenza desumendola da norme che tutelano valori affini.
È noto che la tutela dell’ambiente non era stata compresa nel primo testo della Costituzione, come del resto in tutte le Costituzioni approvate in tempi meno recenti, per il semplice fatto che la problematica ambientale non era ancora emersa perché non erano ancora conclamati il deterioramento dell’ambiente e gli effetti sul clima che sono emersi negli ultimi decenni. La tutela dell’ambiente era entrata – come dire – dalla finestra nel testo costituzionale in occasione della riforma del titolo quinto che ha attribuito allo Stato la competenza esclusiva sulla tutela dell’ambiente, salvo poi attribuire alle Regioni la competenza concorrente alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali. La formula è tale che ha rimesso alla Corte Costituzionale il compito, al quale si è sottratto il legislatore, di individuare il punto di equilibrio fra unità e autonomie.
Ma sull’intera tematica delle funzioni e dei diritti connessi all’ambiente la Corte Costituzionale aveva svolto un ruolo di anticipazione, affermando, come già la Corte di Cassazione, l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo all’ambiente, l’esistenza di un valore ambientale di livello costituzionale, separato da quelli affini come la salute e il paesaggio. Le nuove norme confermano senz’altro le innovazioni già acquisite per via giurisdizionale in materia di ambiente e delle sue specificazioni (la biodiversità e gli ecosistemi), anche con riferimento alle attività produttive. Quanto alla tutela dell’interesse delle future generazioni, la Corte l’aveva fin qui affermata in materia di bilancio, ma gli stessi princìpi si applicano anche alla tutela dal danno ambientale. Si tratta quindi di capire se le nuove norme introdotte negli articoli 9 e 41 della Costituzione rappresentano solo il frutto dell’inseguimento che il legislatore ha fatto per colmare la distanza che si era determinata fra la Costituzione materiale e quella formale, o contengono novità significative rispetto a quanto già consolidato per via giurisdizionale.
In ogni caso l’inserimento di una parte di queste norme nei princìpi fondamentali, che qualcuno riteneva non modificabili, non può che rafforzare tutte le istanze, comprese quelle giurisprudenziali, che avevano anticipato la tutela. In un periodo nel quale la transizione ecologica è all’ordine del giorno delle politiche europee e nazionali, una posizione rafforzata delle istanze che assicurano la tutela può determinarne senz’altro una maggiore effettività. Si tratta di un impegno di particolare difficoltà: vi è un consenso quasi generalizzato nell’opinione pubblica sulla necessità di contrastare il degrado ambientale, ma il problema nasce dal fatto che c’è una sfasatura temporale fra i costi, che vanno sostenuti nel breve periodo, e gli effetti positivi, che potranno verificarsi solo nel lungo periodo. Perciò i partiti, i cui orizzonti operativi sono tutti di breve periodo, hanno una seria difficoltà ad adottare misure che trasferiscano sulle popolazioni il costo immediato del risanamento ambientale. Non è un caso che le decisioni più impegnative in questo senso vengano adottate da organismi più lontani dalla immediata concorrenza fra i partiti (vedi le recenti decisioni del Parlamento europeo sulle auto a benzina o diesel) o dalle Corti a vario livello. Queste svolgono di fatto un’opera di supporto degli orientamenti politici di lungo periodo largamente condivisi dalla popolazione.
Un più marcato elemento di innovazione è comunque quello contenuto nella riforma dell’articolo 41, soprattutto nel terzo comma. La tutela dell’ambiente viene inserita non solo nel secondo comma, nel quale viene configurata come un limite negativo alla iniziativa economica privata, insieme all’utilità sociale, alla salute, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, ma anche nel terzo, che ora prescrive che l’attività economica pubblica e privata debba soddisfare, oltre ai fini sociali, anche quelli ambientali e che lo Stato debba predisporre programmi e controlli idonei a perseguire queste finalità.
Il secondo comma, anche nella nuova formulazione, conferma l’ordinamento vigente, perché era ormai acquisito che l’attività economica non potesse svolgersi in modo da recare danno all’ambiente. È la formula dello “sviluppo sostenibile”, che oggi sembra a molti un punto di arrivo. In realtà la formula è quanto meno equivoca perché implicitamente assume come valore primario lo sviluppo, rispetto al quale l’ambiente funge solo da limite negativo. Negli ultimi anni questa imposta- zione è stata sottoposta a critiche. Le nuove tesi sottolineano la necessità e la possibilità di superare l’idea che sia inevitabile il conflitto fra sviluppo e ambiente e che al più se ne debba cercare una composizione. La consapevolezza diffusa dell’importanza del bene ambientale ha indotto a creare nuovi bisogni di beni biologici e a stimolare forme di produzione che eliminano la nozione di scarto e rendono i rifiuti materia prima di nuovi cicli produttivi, o risolvono il problema energetico attraverso fonti totalmente rinnovabili, che non comportano quindi alcun danno all’ambiente e contribuiscono anzi a una sua rigenerazione. L’ambiente e un nuovo tipo di sviluppo possono quindi essere non contrapposti ma sinergici.
In questa linea si colloca il nuovo terzo comma dell’articolo 41, che contrasta l’orientamento consolidato negli ultimi decenni a seguito della ubriacatura mercatistica. Secondo quell’orientamento i fini sociali sono un elemento estrinseco all’attività economica e si soddisfano solo indirettamente attraverso lo sviluppo, di qualsiasi tipo sia. È di tutta evidenza come questa convinzione non possa applicarsi ai beni ambientali. Che l’attività economica debba soddisfare fini sociali è, invece, la diretta conseguenza della impostazione solidarista sancita nei princìpi fondamentali della Costituzione, come ha recentemente sottolineato in questo giornale il cardinale Zuppi nella sua bella analisi della Costituzione. L’aver inserito in questa norma i fini ambientali, oltre a quelli sociali, fa presagire la possibilità di un nuovo tipo di sviluppo basato più sulla qualità della vita che sulla quantità dei beni prodotti. Si vedrà nei prossimi anni quanto questa nuova impostazione riuscirà a consolidarsi, sia per l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica che ne richiede l’attuazione, sia per l’azione sinergica delle istanze che la supportano, comprese quelle giurisdizionali.