Berlusconi. La (non) eredità del Cavaliere è in un grande capovolgimento
Avrebbe voluto vivere almeno cent’anni, sognandone centoventi, e in effetti Silvio Berlusconi – spirato ieri nella “sua” Milano – ne ha vissuti molti di più degli ottantasei attestati dall’anagrafe. Difficile stabilire il coefficiente utile a calcolare la durata reale dell’esistenza effervescente e insonne del fondatore di Milano Due e del più grande network radiotelevisivo privato italiano, del rifondatore del Milan, dell’inventore di Forza Italia e dello sdoganatore liberale della destra radicale di governo, del presidente del Consiglio di più lungo corso dell’Italia repubblicana (3.339 giorni a Palazzo Chigi, primeggiando sul “divo” Andreotti e sui padri della patria De Gasperi e Moro) e del politico-capitano d’azienda più (e più variamente) finito sotto processo a memoria d’uomo.
Anni spesi da Silvio Berlusconi per costruire un impero mediatico e finanziario e diventare il sinonimo in carne o ossa di una nuova Repubblica: la Seconda Repubblica, che non è mai nata per davvero (se è vero che le Repubbliche nascono dalle Costituzioni, e che la Costituzione italiana non è stata riscritta, solo qua è la corretta e, a volte, scorretta...), ma nella quale abbiamo alla fine pensato di abitare e votare e nella quale ci siamo ritrovati a dibattere e a dibatterci. È avvenuto anche e soprattutto a causa sua, e ognuno è libero di decidere se sia più colpa o più merito. Ed è su questa scena politica che “il Cavaliere” (del Lavoro, titolo dal quale si autosospese nel 2014, dopo la prima è unica condanna incassata, e che non gli è mai stato revocato) ha continuato a influire sino all’ultimo, da comprimario e non più da dominatore, anche quando si è cominciato a parlare di Terza Repubblica. Pure stavolta il vero o presunto cambio di fase è accaduto senza cambiamenti radicali di Costituzione, anzi nonostante le bocciature referendarie di ben due articolate revisioni del nostro ordinamento istituzionale che tanto o poco portavano il suo timbro, quella firmata direttamente da Berlusconi e Bossi nel 2006 e dieci anni dopo, nel 2016, quella targata Renzi-Boschi, alla quale il leader di Forza Italia aveva in una prima fase cooperato, ma che infine aveva disconosciuto e avversato nonostante i molti punti di sovrapposizione con la sua.
Piaccia o non piaccia, è così: in Italia le Repubbliche cambiano non per il mutare della Legge fondamentale, ma con il variare delle norme elettorali e con i processi (e gli umori o i malumori) elettorali che quegli strumenti propiziano, accompagnano e consolidano. E questo Silvio Berlusconi, padre del leaderismo all’italiana, l’aveva capito bene e aveva saputo usarlo, prima e meglio di altri. Del resto, tale attitudine – il saper vedere e interpretare prima e meglio di altri alcuni grandi processi in corso – gli ha consentito di entrare da “patron” nelle stagioni che ha attraversato da protagonista. Un esercizio realista e visionario del potere, sviluppato con tempestività e spregiudicatezza e intessendo anche relazioni opache, che lo gravarono di grandi debiti politici e finanziari poi trasformati in crediti. Basta ricordare il vittorioso assalto della Fininvest, in seguito Mediaset, al monopolio radiotelevisivo della Rai, sino alla nascita del duopolio pubblico- privato Rainvest e alla costruzione (con il passaggio decisivo della conquista di forza e, con qualche sgambetto, della Mondadori) di uno dei principali poli editoriali italiani ed europei.
È questa l’impresa imprenditoriale più conosciuta, acclamata e contestata del Cavaliere. Ed è la fonte prima della tempesta mai placata del tutto sul suo «conflitto di interessi » e la madre imbronciata di una «par condicio» sempre invocata, disciplinata e mai pienamente realizzata. Infatti, la successiva e politicissima «discesa in campo» di Silvio da Arcore e il ventennale ruolo di azionista di riferimento del centrodestra, una delle grandi coalizioni che si sono contese e spartite il potere nell’era del maggioritario all’italiana, è figlia e sorella di quel successo originario. E senza la poderosa macchina comunicativa e persuasiva a disposizione del gran capo e, con sempre meno parsimonia, anche dei suoi alleati non sarebbe stato possibile. Eravamo in epoca pre-digitale, ma la forza ancora analogica del berlusconismo aveva anche in questo senso una carica anticipatrice. Con pochi slogan suggestivi e incendiari l’uomo delle televisioni si trasformò nell’uomo delle visioni e delle divisioni: più tutto per tutti, meno tasse, vietato vietare…
E così Berlusconi ereditò la terra. Ovvero una gran parte (un po’ di ceto dirigente e tanti voti) della decisiva e un po’ fantomatica “Italia moderata”, quella che aveva dato base al primo centrosinistra e poi al pentapartito, imperniato sull’alleanza tra Dc, socialisti e liberal-repubblicani. La ereditò, pretendendola, con decisionismo craxiano, e arrivando a proclamarsi nuovo De Gasperi contro una nuova marea “rossa”. Lo fece partendo da un balbettio solo apparentemente bambino « Fozza Itaia» (la geniale campagna di pre-lancio del partito di plastica deciso a prender corpo nelle urne) e con l’assoluta determinazione di opporsi al nuovo centrosinistra progressista, potenzialmente trionfante e, come si sarebbe capito presto, così autolesionista da azzoppare e disarcionare per due volte (dopo appena un paio d’anni di governo) Romano Prodi, l’inventore dell’Ulivo, e l’unico in grado di battere per altrettante volte il Cavaliere al massimo della forza. Ma è un fatto: Berlusconi ereditò per discendenza rivendicata, e con straordinario e suadente potere narrativo, l’« Italia moderata » e la portò gradatamente sempre più a destra, divorando, a uno a uno, i suoi delfini centristi sino a consegnare la lotta per l’egemonia a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni, capi di Lega e Fratelli d’Italia, le due destre della coalizione.
Già la coalizione, l’altro “capolavoro” del Cavaliere. Capace di mettere insieme e di amalgamare a partire dal 1993-94 pezzi a lungo incomponibili della politica e dell’elettorato del Bel Paese. Di fonderli nella percezione di tanti italiani (negli ultimi tre turni elettorali nazionali, milioni di voti si sono spostati nell’area, travasandosi dall’uno all’altro dei partiti alleati in un centrodestra diventato infine destracentro) e sulla spinta di slogan spesso radicali e di una propensione alla contrapposizione frontale con gli avversari di turno. Un capovolgimento di senso (di marcia, e non solo), se si ripensa all’operazione compiuta da chi, all’alba della Repubblica, aveva accompagnato una generazione di italiani cresciuta sotto il fascismo a radicarsi nella nuova e piena democrazia repubblicana, popolata di soggetti politici di massa e imperniata sulla cultura, sull’azione e sulla deliberata volontà di collaborazione di un grande partito popolare espressione di un «centro che guarda a sinistra» (definizione della Democrazia cristiana del vero De Gasperi).
L’ultimo progetto politico elaborato e proposto da Silvio Berlusconi, e in qualche modo il suo lascito, è quello di trasportare in Europa l’esperienza italiana costruendo una nuova alleanza popolar-conservatrice che archivi la lunghissima stagione del centrosinistra continentale, basata sull’alleanza tra popolari e socialdemocratici con la successiva aggiunta dei liberali. Vedremo se i suoi eredi politici, ormai più fuori dall’inquieta e rimpicciolita Forza Italia che dentro di essa, sapranno lavorare per questo e come.