Opinioni

Torniamo a pensare l'esperienza del morire. Da cristiani. La morte non è tutto (e non è il niente)

Michele Giulio Masciarelli venerdì 2 novembre 2012
​Il ritorno annuale del giorno dei morti impone anche il pensare la morte. La morte è oggi di menticata, emarginata, tabuizzata. Ma c’è una ragione per tutto questo. Persa la verità dell’origine, impoverito o smarrito il senso del tempo storico, oscuratosi l’orizzonte ultimo, il misterioso luogo a cui l’esistenza è diretta è la morte. Per così dire, ci si è arresi alla morte. Per indicare la portata di questa resa capitale si è sentito il bisogno di usare metafore segnate dal senso della caduta, della sconfitta e della fine: si parla così di sensazione del "naufragio" e di un’invincibile "ansia", per usare le note espressioni di Hans Blumenberg. Non va perciò elusa la saggezza del "1° Novembre": essa ripropone l’incontro con la morte, chiedendo di smettere l’insipiente disincontro con essa. Ma come realizzare tale incontro? Se il confronto sulla morte si riduce a parlarne fra di noi, la morte ci rimane addosso. L’evento della morte ci porta a invocare un testimone capace non solo di osservarla, ma anche di afferrarla e di distruggerla a sua volta. Solo all’ombra delle mani potenti di Dio ha senso parlare della morte senza ingenuità e senza retorica. Di fronte alla morte ci si discrimina fra credenti e non credenti, dal momento che, come ha scritto nel suo De morte Ottiero Ottieri, «ogni scheggia di morte rimbalza su Dio» (Parma 1997, p. 11). Perciò il cristianesimo da sempre, pressoché senza interruzioni, ha pensato la morte fino ad elaborare una vera dottrina su di essa. Il cristianesimo segue con interesse il problema della morte, non perché sia una religione funeraria, ma perché è una religione esperta in umanità, e lo è soprattutto perché di questa non salta la data più oscura e imbarazzante, che è appunto la morte. Un nodo di questioni interessa il cristianesimo nel suo dialogo sulla morte che, anche a livello culturale, intrattiene col mondo d’oggi: che cos’è la morte?, esiste per l’uomo una speranza che porti oltre la barriera nera della morte?, qual è l’origine e quali sono i modi di conoscenza della morte?, come vivere di fronte alla morte sicura? e, perfino, come definirci e distinguerci come uomini di fronte alla morte? Non sembri fuori posto l’ultima di queste domande; è, in fondo, la più seria, perché è quella che ci investe di più come mortali. Che ne sarebbe del Credo cristiano senza risolvere il problema della morte? E ancora. Non va visto, a seconda di come ci si pone nei confronti della morte, se si è credenti o meno e quale tipo di uomini si è? In sintesi, il cristianesimo non rinuncia a confrontarsi sul tema della morte né col pensiero post-moderno né col nichilismo. Il superamento della prospettiva nichilistica, oggi dilagante, risulta in tutta la sua evidenza nel tertium datur della morte: altro è morire pensando di finire per sempre nella buca nera del nulla, altro è morire per l’Invisibile. Questo secondo modo di morire avviene nell’intuizione credente che il cimitero non contiene il loculo del destino ultimo del singolo uomo e, conseguentemente, che la storia non è la "fossa comune" dell’intera famiglia umana. Questa è la nostra granitica fede: la nostra tomba, per la potenza della risurrezione di Cristo, diventerà una culla, da cui usciremo alla gloria. Se l’ottimismo della ragione moderna aveva esorcizzato la morte, riducendola a puro momento negativo del processo totale dello spirito, il pessimismo della ragione post-moderna, estendendo l’esperienza del morire all’intera vita – intesa perciò come un interminabile addio, un continuo precipitare verso il non-senso – non emargina di meno la drammaticità del morire. Per il cristiano, invece, il problema è quello di guardare in faccia la morte, di non mutarle nome, di vigilare perché non si taccia su di essa, ma anche d’impedire che si enfatizzi fino a ritenerla la forma unica e ultima della realtà.