Il direttore risponde. La morte di Corazon, il perdono di Julito: le parole (e paure) sbagliate e la buona via
Caro direttore,
torno con la memoria a immagini che mi sono rimaste nella mente e nel cuore. Telegiornali della sera di venerdì 29 maggio, ecco il fratello di Corazon, la filippina travolta e uccisa, a quanto pare, da due ragazzi rom a Primavalle alla periferia di Roma. Nessuna rabbia. Dolore composto. Mentre una grossa lacrima gli riga il volto, il fratello della vittima, al microfono rilascia una delle testimonianze a mezzo televisivo più impressionanti che abbia visto. «Sì, chiedo giustizia. Mia sorella tornava dall’aver fatto visita a mia moglie in ospedale. Era felice di essere diventata zia. Io perdono, perché Dio perdona. Chi è stato poi è solo un essere umano...». Non è possibile fraintendere. Una testimonianza inequivocabile. Buonismo zero. Trapelano solo dolore e compassione. Altro che sgombero di tutti i campi rom, come chiede a voce sempre più alta il leghista Salvini. Si proceda pure, se la politica impotente non riesce a governare il fenomeno. Qualora però accadesse così, brutalmente, che vita sarebbe la nostra, che convivenza e che società avremmo se dopo lo “sgombero” continueremo pur sempre a dover fare i conti con questa umanità di “piccoli uomini”, Salvini compreso. Abbiamo invece sempre più bisogno di semplici giganti dell’umano come quest’uomo, fratello di Corazon. Vogliono far fuori i campi rom? Nessuno s’illuda. Senza Dio un’altra umanità non sarà mai possibile! Quel filippino, quel suo dolore ci parla: cristiani, sveglia! Non ci salverà certa politica.
Gentile direttore,
a proposito dell’incidente accaduto alcuni giorni fa a Roma, che ha causato la morte di una persona e il ferimento di almeno altre otto, condivido – come scritto più volte da “Avvenire” e, lo scorso 29 maggio, da Paolo Lambruschi – che i rom sono «persone, non razza». Proprio perché consideriamo tutti uguali – italiani ed extracomunitari e in particolare coloro che vengono da tradizioni diverse – bisogna che coloro che arrivano a insediarsi definitivamente, oppure per brevi o lunghi periodi in Italia non accampino solo “diritti” all’inserimento nei nostri lavori, case, ospedali, scuole, ma prima di tutto, devono conoscere i loro “doveri” e rispettarli, come si esige da noi italiani. Mi chiedo quanti di loro, pur avendo quasi tutti una o più macchine, paghino regolarmente bollo di circolazione, assicurazione, multe, o ticket sui mezzi pubblici, ecc. Non sono razzista, ma vorrei che coloro che vivono nel nostro Paese si comportassero legalmente. E sono convinta che molti lettori di “Avvenire”, e non solo, sono dello stesso parere. Grazie e cordiali saluti.
Bianca Paci - Roma
Pronunciamo, prima di tutto, caro amico e cara amica, il nome completo delle vittime di quel terribile fatto di morte e sofferenza accaduto in una via di Roma. E due nomi in particolare. Corazon Abordo, la donna – moglie, madre e sorella – uccisa a causa della presunta (le indagini confermeranno o meno) follia automobilistica di due minorenni e salutata ieri con affetto nella chiesa romana di Santa Maria della Presentazione. Julito Abordo, l’uomo – e il fratello – capace di dire e di vivere con profondità il dolore suo e di tutta una famiglia accompagnandolo non soltanto con umanissime e coinvolgenti parole di richiesta di giustizia, ma anche e soprattutto con cristiano sentimento di perdono. Ne abbiamo bisogno per non imprigionarci nei pregiudizi e nei luoghi comuni. Ne abbiamo bisogno – ha ragione, caro professor Emmolo – per “svegliarci”. Ne abbiamo bisogno – vede bene, cara signora Paci – per ricordaci della necessaria corrispondenza tra i diritti e i doveri, e al tempo stesso però per non dimenticare che non si è “buoni” o “cattivi” a motivo del luogo di nascita, ma del nostro cuore, e delle scelte o delle non-scelte, delle azioni o delle inazioni, del bene o del male che compiamo (o perseguiamo e inseguiamo) nei giorni della nostra vita. Non torno su questioni su cui abbiamo scritto molto. Vi confesso, però, che in questa tragica circostanza, mi ha emozionato fino alle lacrime aver sentito echeggiare senza retorica sulla bocca del signor Julito e poi delle figlie di mamma Corazon, l’insegnamento evangelico, l’antica e sempre nuova parola della Chiesa che oggi sta al cuore del magistero di papa Francesco. Mi ha emozionato tanto quanto mi commosse, in un’Italia diversa e uguale a quella che oggi viviamo, ascoltare gli stessi accenti e condividere lo stesso respiro cristiano nelle parole di Giovanni Bachelet al funerale del padre, Vittorio, ucciso da un’altra e, quella sì, premeditata follia.
Ricominciamo da qui. Dalle parole di giustizia e di perdono di un cittadino e di un cristiano nato in una terra chiamata Filippine e vivo, attivo, partecipe qui, oggi, in una terra chiamata Italia. Qui, dove una stessa legge deve guardare e riguardare tutti. Qui, dove – oltre la legge – una sapienza condivisa, di padre in figlio, da fratello e sorella a fratello e sorella, può farci vivere bene insieme nelle nostre differenze, in uguaglianza di diritti e di doveri, e soprattutto di dignità. Ogni altra parola spesa – da politici arrabbiati o da arrabbiati con la politica e persino con la religione – per negare questa saggezza che ci àncora alla sostanza della vita – e di una fraternità di cui dobbiamo essere consapevoli e saper essere gelosi – ci fa più poveri, più soli, più tristi, più insicuri e più disperati. E noi, specialmente noi che con gioia proviamo a seguire Cristo e a riconoscerlo nei volti di coloro che incontriamo sul cammino, possiamo ben rendercene conto. Julito Abordo ci ha dato fraternamente una mano mettendo a nudo il suo animo e parlandoci di noi e di Dio. Fraintendere – fraintenderlo e fraintenderci – non è possibile.