Coronavirus. La molto amara lezione del virus sconosciuto
Proviamo a sottrarci per un momento alla pandemia psicotica generata da quanti ossessivamente ci raccomandano con toni allarmistici di non allarmarci. E soffermiamoci su alcune riflessioni che dovremmo saper trarre dalla vicenda del coronavirus che è stato chiamato Covid-19. Mi limito ad elencarne alcune, in ordine apparentemente sparso.
Sino a quando il focolaio sembrava confinato nella lontana Cina, l’unica nostra vera preoccupazione era che vi rimanesse; confinato, appunto. In genere, guardiamo con affettata partecipazione ai drammi che ci sono geograficamente, socialmente o economicamente lontani. Per quanto disperante sia la condizione degli altri non riusciamo a farla nostra: la guardiamo come un incendio al di là del fiume. Magari attoniti, ma troppo distaccati. Non riusciamo non solo a sforzarci di aiutare, ma neppure di capire la disperazione altrui. Il sazio – come è stato osservato con disarmante semplicità – non comprenderà mai l’affamato.
Ci voleva questa inquietante vicenda per ricordarci quello che i padri dei nostri nonni hanno vissuto sulla loro pelle: quanto sia umiliante e ingiusto, cioè, essere non graditi o, addirittura, respinti da un altro Paese solo a causa della propria provenienza. E sì che per noi si tratta semplicemente di rimanere o di ritornare in uno dei posti più belli e più vivibili del mondo; non di essere ricacciati nella miseria più nera o nei lager, fra vessazioni, violenze e torture. Non c’è poi sciagura, per quanto drammatica, che non induca qualche avvoltoio a cercare di lucrarne un profitto economico o politico. L’altro ieri il terremoto, ieri l’immigrazione, oggi l’epidemia, domani ciò che inevitabilmente sarà.
Non si tratta del primario istinto di sopravvivenza che può comprensibilmente indurre a preoccuparsi della propria vita quando il cercare di salvare quella degli altri la metterebbe in pericolo (anche se c’è, eccome, chi agisce esattamente all’opposto, mettendo al primo posto il soccorso dell’altro e l’impegno per la salvezza comune). Si tratta, più squallidamente, di strumentalizzare la paura e il dolore altrui per accaparrarsi un surplus economico da destinare a lussuose dissipazioni o per conquistare (forse) un pugno di voti da gettare sul tavolo della politica. La nostra innata precarietà dovrebbe invece indurci – se non per altruismo, almeno per lungimirante strategia – a una più stringente solidarietà, a unire le forze per difenderci insieme dalle innumerevoli insidie cui ci lascia esposti la nostra vulnerabilità.
Ed invece: sebbene basti un microorganismo acellulare, cento volte più piccolo di un batterio, per stravolgere la vita del pianeta, noi continuiamo e continueremo imperterriti a sgomitare e a sopraffarci a vicenda. Un pianeta, è bene ricordarlo per mantenere il senso della nostra microscopicità, che è ancor meno di un granello di sabbia in rapporto alla 'spiaggia' della sua galassia, a sua volta immersa in miliardi di galassie. Individualismi, familismi, regionalismi, sovranismi non sono, dunque, soltanto espressione di ottuso egoismo; sono anche patetici. Ma se da millenni si è alla vana ricerca di un antidoto, e se Qualcuno che aveva ben maggiori chance ha pagato con la sua stessa vita il tentativo di introdurlo, tutto lascia temere che da questo male oscuro l’umanità ancora non sappia o non voglia guarire.