Opinioni

Modernità solidale. Ideali e razionalità, così l'Occidente può superare le chiusure

Carlo Cardia giovedì 28 giugno 2018

Migranti tratti in salvo e sbarcati a Motril nel Sud della Spagna il 26 giugno (Ansa)

Visitando il Quirinale nel 1964, Paolo VI tratteggiò il carattere più dolce della nostra storia evocando il rapporto che l’ha unita al cristianesimo: «Noi vogliamo bene, un bene spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale a questo magnifico e travagliato Paese; (e) non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione universale i suoi figli migliori». L’educazione a gentilezza, civiltà, virtù, è la sintesi inarrivabile dell’italianità, elaborata dalla mente e dal cuore di papa Montini. Ciò non toglie nulla alle difficoltà e asprezze che anche la nostra storia ha vissuto, se solo si pensa alla contaminazione con il male assoluto che l’Italia ha vissuto dal 1938 al 1945, macchiati da un antisemitismo, vera malattia dell’anima, che non trovava eco nella nostra cultura.

Limitandoci alla modernità, il nostro Paese non ha conosciuto gli orrori del razzismo che altre Nazioni hanno realizzato con parole e pratiche che segnano la storia fin quasi ai giorni nostri. A cominciare da quelle terribili, dell’epoca della schiavitù, che a volte vanno rilette, se non altro per ricordare il cammino che s’è compiuto. Quelle della Corte Suprema degli Stati uniti che nel 1857 considera i neri «come una classe di esseri subordinati e inferiori, che erano stati soggiogati dalla razza dominante e che, fossero emancipati o meno, rimanevano tuttavia soggetti alla autorità dei bianchi, e non avevano alcun diritto o privilegio»; «talmente inferiori da non avere alcun diritto che l’uomo bianco potesse rispettare», al punto che ognuno di loro poteva essere «comprato e venduto, e trattato come un articolo ordinario di mercato e commercio, quando poteva esserne tratto profitto». Quando Abraham Lincoln abolì la schiavitù, rimase radicato quel razzismo che per Alexis de Toqueville condannava le persone all’apartheid : gli uomini sono eguali, ma non è detto che debbano vivere insieme, meglio separati, nelle scuole e negli autobus, nei bar e nei treni, nei territori e nelle città. Si pensò allora di poter essere eguali e razzisti, che la legge può essere eguale per tutti ma la società può seguire regole opposte. Ancora nel 1896, la Corte Suprema dichiara che «la legge non ha il potere di sradicare gli istinti razzisti o di abolire le distinzioni basate sulle differenze fisiche, e il tentativo di farlo non farebbe che accentuare le difficoltà della situazione presente. Se una razza è inferiore all’altra socialmente, la Costituzione degli Stati Uniti non può porle entrambe sullo stesso piano».

C'è poi un’altra forma di razzismo praticato nell’economia, ancora latente in vecchie idee malthusiane, e nel concetto del «gran banchetto della natura» alla quale non tutti possono accedere. Per Malthus, nel 1798, lo Stato è come un anfitrione che deve scacciare gli intrusi dal gran banchetto della natura per garantire il benessere collettivo, perché «un uomo, se non può ricevere sostentamento dai suoi genitori, ai quali ha il diritto di chiederlo, e se la società rifiuta il suo lavoro, non ha il diritto di esigere neanche una piccola parte di sostentamento. Nel gran banchetto della natura non c’è posto per lui. Essa l’invita ad andarsene e metterà rapidamente in pratica questo ordine, se egli non susciterà la compassione degli altri invitati». L’economista, però, sa che la compassione ha un posto nel cuore degli uomini, e può cambiare la storia. Quindi mette sull’avviso contro la benevolenza, perché «se qualche invitato si alzerà e gli farà posto, altri intrusi compariranno»; «la notizia che v’è cibo per tutti coloro che giungono riempirà la sala di numerosi mendicanti. Risulteranno turbati l’ordine e l’armonia del banchetto, l’abbondanza che regnava in precedenza si trasformerà in scarsità e la felicità degli invitati risulterà rovinata dallo spettacolo della miseria in ogni parte della sala». Infine, questo feroce darwinismo s’ammanta perfino di compassione, e rivendica la saggezza dell’anfitrione, il quale, per evitare la miseria di tutti, aveva difeso la ricchezza di pochi, e rifiutato «con benevolenza di ammettere gli ultimi arrivati, quando la tavola fosse già occupata».

Come si diceva all’inizio, con le parole di Paolo VI, all’Italia è stata risparmiata, almeno in linea di massima, una storia dura e feroce di uomini contro altri uomini, e certamente è stato evitato quel razzismo che non trova posto nella tradizione, nella cultura, nella religiosità degli italiani. Ma rileggere oggi le parole dei razzisti di un tempo, dei maltusiani-darwinisti di sempre, fa riflettere sulla realtà che si vive in tante parti del mondo ancora attualmente, compresa la schiavitù di fatto, sui rischi d’involuzione che anche noi corriamo, sulla drammatica possibilità di perdere quanto di prezioso abbiamo costruito e conquistato nel corso dell’evoluzione storica, materiale e spirituale. C’è un grande equivoco che viene alimentato, quando si sostiene che chiedere accoglienza per gli esuli, gli immigrati, i più deboli risponde a un nobile sentimento ma induce ad agire senza criterio e discernimento, mettendo a rischio l’equilibrio sociale. Ma è proprio questo il compito che la politica deve assolvere, e che papa Francesco ha tratteggiato ancora di recente; con l’obiettivo di non dimenticare, bensì di «accogliere, accompagnare, sistemare, integrare», mentre «ogni Paese deve fare questo con la virtù propria del governo, cioè con la prudenza. Ogni Paese deve accogliere quanto può, quanti ne può integrare. L’Italia e la Grecia sono state generosissime ad accogliere». Questo riconoscimento all’Italia, giunto ormai da diversi Paesi europei, non deve mai essere usato per deviare, nel linguaggio e nelle pratiche, dalla nostra tradizione, la nostra storia più dolce, per suscitare e ingigantire sentimenti e paure reali che vanno governate, senza precipitare mai in quell’abisso che divide i bambini dai genitori, che suscita ribrezzo prima che dissenso.

Le parole riflettono sempre il momento storico che si vive, non riescono a distaccarsi dagli ideali che ci guidano, dai valori o dai disvalori che ciascuno di noi coltiva. Anche in un oceano di civiltà le parole sbagliate possono ferire, dividere, e condannano solo chi le pronuncia. Non sarà mai poco ciò che si fa per far arretrare i muri del darwinismo sociale, se non altro per dare speranza alle nuove generazioni che non sono immuni dalle malattie razziste dell’animo e della mente, ma possono subirne il contagio, come accaduto in passato.

Nell’era dei diritti umani universali possiamo sostenere e rivendicare che il gran banchetto della natura è qualcosa che spetta a tutti, un bene comune inalienabile, da condividere con solidarietà e razionalità, senza malcelate e scandalose sopportazioni per alcun convitato, e che a questo fine deve tendere l’Europa e l’Occidente, pervasi da egoismi, ma anche ricchi di possibilità di distribuzione che non escluda nessuno. La modernità solidale non esiste se non si coniugano idealità e razionalità, E se non esiste modernità solidale, il mondo è destinato a scoppiare. Non è così, non può essere così.