Pericoloso ritorno all'antica barbarie. La moderazione come antidoto
Gli Stati Uniti rappresentano ancora nell’immaginario collettivo un Paese democratico, liberale, in cui a ognuno è permesso di raggiungere le vette del potere economico, politico, sociale sulla base dei suoi meriti. Ciascuno può dimostrare agli altri quanto vale e conquistare il consenso necessario per affermarsi nel campo che desidera. Un Paese meritocratico, dunque, che troppo spesso però ricorre alla violenza per fermare gli avversari. Una contraddizione sorprendente: democratico a parole, invece drammaticamente violento a mano a mano che il potere sembra diventare accessibile.
È successo ancora a Butler, in Pennsylvania. Sorprende sempre più che la storia politica di un Paese considerato la prima democrazia del nostro tempo non riesca a trovare un modo che confermi nei fatti che la strada della democrazia non può essere cosparsa di sangue. La democrazia ha un suo stile che passa per il confronto, con una discussione – anche chiara e forte – tra chi utilizzando le proprie argomentazioni e ascoltando quelle altrui vuole giungere a una sintesi, forse anche a un compromesso, ma evitando la violenza.
I colpi di fucile contro Trump invece segnano drammaticamente una campagna elettorale costellata sinora di parole sempre più violente, con un’escalation di giudizi perfidi e spregiativi. Limiti e difetti dei due grandi vecchi sono stati sbandierati con un’aggressività incomprensibile.
In Italia ci siamo chiesti in numerosi circoli politici, nelle sedi istituzionali e nell’opinione pubblica come fosse possibile che tra oltre 300 milioni di persone gli americani non ne avessero potuto individuare due migliori.
Abbiamo visto crescere un’ostilità amara e tutt’altro che democratica, giorno dopo giorno. Mentre tutti si dicevano pronti ad abbassare i toni di un confronto che assumeva le cadenze di una vera lapidazione dell’avversario, nessuno si assumeva le proprie responsabilità. E mentre i due leader ribadivano con tenacia e determinazione la loro volontà di non fare un solo passo indietro, alleati e avversari ne chiedevano la sostituzione, anche loro con la violenza propria di una piazza che non intende rinunciare a ciò che reclama.
Con l’attentato di Butler, Trump si consacra come vittima grondando sangue e mostrandosi con il pugno chiuso, ancora vivo e pronto a lottare. Pochi centimetri più in là e anche lui si sarebbe aggiunto alla lunga lista di vittime di questo assurdo modo di intendere e vivere la partigianeria politica. La violenza chiama altra violenza, ha qualcosa di contagioso: fermarla richiede non solo un passo indietro, per praticare la difficile arte del perdono: esige un radicale cambio di passo. Occorre riconoscere che c’è stato un ritorno all’antica barbarie, che abbiamo dimenticato le nostre radici culturali legate a quella filosofia greca e a quel diritto romano che hanno creato la cultura occidentale, intrecciandosi profondamente alla fede cristiana. Viene meno il rispetto del diritto come delle virtù precristiane, tanto care ad Aristotele e a quel grande maestro di etica che fu Seneca.
Ma ora si sta perdendo anche l’etica cristiana, con quel potente riferimento alla carità proclamata in molteplici occasioni come la virtù politica per antonomasia. Papa Francesco ha insistito in più occasioni sul fatto che i politici non possono rinunciare a praticare questa grande virtù, che rappresenta un potente fattore di coesione sociale, un antidoto fondamentale alla violenza e all’aggressività, anche perché – dice san Paolo – non è invidiosa, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, e soprattutto si compiace della verità. Tutte virtù assenti nell’attuale lotta politica.
L’invidia sembra la radice di tutti i difetti, inducendo a cercare l’interesse personale più di ogni altra cosa, vantandosi dei propri meriti e denigrando l’avversario. Soprattutto, è incapace di perdonare e di cercare davvero la verità. Piuttosto tende a manipolare i fatti, a trasformarli in offese ricevute che giustificano la vendetta e legittimano ulteriori forme di violenza. Nessuno così si sente colpevole, mentre le responsabilità ricadono sugli altri. In tutto questo non c’è traccia di moderazione, neppure di un sapiente sforzo per tutelare i propri diritti senza trasformarli in arme contundenti.
Ci chiediamo quale sia il ruolo dei cattolici in politica, ma intanto ci si dimentica che i fondamentali a cui tutti siamo legati in fondo sono pochi: definirli è assai più semplice di quanto non sembri. La vera difficoltà è praticarli con l’umiltà e il rigore necessari, attingendo alle nostre radici cristiane, che a loro volta rimandano a quella cultura greco-latina che oggi sembra sacrificata alla dittatura della tecnocrazia.
La moderazione, essenziale in politica, non ha nulla a che vedere con la mediocrità o con l’opportunismo di chi non vuole complicarsi la vita. È piuttosto la virtù di chi sa mediare tenendo conto delle reciproche responsabilità, di chi non crede che la sua vita sia fatta solo di diritti, più o meno individuali, e quella degli altri solo di doveri nei nostri confronti.
Nei sessant’anni trascorsi dall’assassinio di John Kennedy a Dallas sembra che non abbiamo imparato nulla e che la violenza continui a farla da padrona per risolvere le questioni politiche. A poco ci serve l’intelligenza artificiale se manchiamo di un genuino interesse per le persone di cui dovremmo prenderci cura. È da qui che dobbiamo ricominciare.