Ritratti. Pasinelli: «La mia vita per le malattie rare cercando di imitare Schweitzer»
Francesca Pasinelli
La sua vocazione di scienziata al servizio dei malati è nata grazie a un fumetto. Precisamente una vignetta del Corriere dei piccoli, che raffigurava l’epopea di Albert Schweitzer, il medico-missionario premio Nobel per la pace nel 1952 che si dedicò a curare i malati nei posti più remoti d’Africa. «Avrò avuto 8, 10 anni, rimasi folgorata quando lessi la sua storia. Decisi che avrei fatto quello anch’io: volevo occuparmi di malattie che nessuno curava, neglette e dimenticate». E quello, proprio quello, Francesca Pasinelli ha fatto: alla Fondazione Telethon ha trascorso 27 anni della sua vita, fino a metà settembre, quando ha lasciato l’incarico di direttrice generale. È stata lei, questa ragazza classe 1960, farmacologa di fama, semplice e pacata, dotata però di volontà e caparbietà eccezionali, che dopo una carriera nelle società farmaceutiche internazionali ha scelto di dedicarsi a Telethon e di farne una “charity biomedica e farmaceutica” (modello unico in Italia e assai raro anche all’estero): un ente no profit che dalla sua fondazione, nel 1990 per iniziativa di un gruppo di pazienti affetti da distrofia muscolare e su impulso di Susanna Agnelli, ha investito in ricerca 698 milioni di euro, finanziato oltre 3.000 progetti con 1.771 ricercatori coinvolti e 637 malattie studiate. L’ultima frontiera, per completare l’intera “filiera della ricerca”, è che Telethon è diventata responsabile della produzione e della distribuzione di alcuni farmaci “orfani”, quelli che servono a salvare la vita a pochissimi pazienti.
Dottoressa Pasinelli, lei dopo la laurea e la specializzazione in Farmacologia a Milano ha avviato una brillante carriera nelle multinazionali del farmaco. Cosa l’ha spinta in seguito a lasciare il mondo profit per dedicarsi a Telethon?
Dopo gli studi ho avuto la fortuna di lavorare in aziende che pongono molta attenzione alla formazione di competenze manageriali tra i quadri e i dirigenti. Ho raggiunto risultati importanti ma a un certo punto della mia vita ho iniziato a chiedermi che senso avesse lavorare a un ennesimo nuovo prodotto. Così ho ripensato alla mia antica intuizione: anche io volevo usare le mie competenze in un ambito in cui l’industria non arrivava. Per Albert Schweitzer erano i Paesi africani, erano la lebbra e la dissenteria, per me erano le malattie rare, in quel momento molto trascurate. Telethon ha risposto a questa mia domanda: mi chiamò la fondatrice Susanna Agnelli nel 1997. Prima sono stata direttrice scientifica, poi dal 2009 direttrice generale. A quel punto il mio lavoro ha ripreso ad avere un senso.
Non deve essere stato sempre facile: rapportarsi con famiglie che sperano in una cura immediata per i loro figli, quando la cura arriverà solo dopo anni di strenua ricerca, deludere le aspettative dei genitori...
No, non è stato sempre facile. Ma ci sono due frasi che mi accompagnano sempre – Francesca Pasinelli apre una schermata del suo cellulare –: « La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo, ma la certezza che ha un senso. Che abbia successo o meno». Questa l’ha scritta Václav Havel.
La seconda?
È di Martin Luther King: «Non hai bisogno di vedere tutta la scalinata, inizia semplicemente a salire il primo gradino».
Gradino dopo gradino, lei ha allargato l’azione di Telethon: da ente finanziatore di ricerca scientifica a (anche) produttore di farmaci per malattie rare.
Ho portato in Fondazione Telethon la mia esperienza nell’industria farmaceutica privata. Volevo che dalla ricerca più avanzata nascessero terapie per i pazienti, a disposizione di tutti i malati. È un cambiamento di mentalità per lo stesso ricercatore: lo scienziato ha la vocazione di continuare a scoprire cose nuove, ma il compito di un ente come il nostro è portare quelle scoperte al letto del paziente. La nostra missione è scoprire i meccanismi alla base delle malattie genetiche, individuare una strategia terapeutica e fornire soluzioni per chi soffre di quelle malattie, anche se è pressoché l’unico al mondo.
Com’era la sua famiglia di origine?
Vivevamo a Brescia, in un quartiere di nuova edificazione. Il nostro piccolo condominio era pieno di bambini, si stava tutti insieme. Mio padre come molti bresciani aveva la sua piccola azienda metalmeccanica.
In famiglia si è sentita sempre incoraggiata? O il fatto di essere una femmina le ha posto dei limiti?
No, mai. Ho vissuto in una famiglia in cui l’amore era tangibile, quasi si poteva toccare. Mia madre ha rappresentato un femminile molto tradizionale: pacato, mite, al servizio della famiglia, accogliente. Sono stata guardata da entrambi i genitori come una persona che poteva esprimersi come voleva, che poteva fare e diventare tutto, con una fiducia incondizionata. Lo sguardo d’amore con cui sono cresciuta mi ha definita.
E lei che mamma è stata per i suoi due figli?
Una mamma che c’è stata poco, ma che ha investito sulla qualità del tempo trascorso insieme più che sulla quantità. Una mamma che però non ha mai perso un saggio scolastico o un colloquio con i professori. Ho avuto la fortuna di lavorare in aziende anglosassoni, sono stata promossa dirigente a 32 anni quando ero incinta del mio secondo figlio. Non ho mai dovuto accampare scuse per andare a una recita di Natale, e con mio marito abbiamo avuto una gestione equilibrata della famiglia.
Insomma, nessuno l’ha mai fatta sentire in colpa per “aver anteposto la carriera ai figli”?
Si vive perennemente con i sensi di colpa. L’inquietudine è una condizione permanente delle mamme lavoratrici. Per quanto mi riguarda, ho messo sempre davanti a tutto i miei figli: se avessi percepito che vivevano qualche scompenso, avrei aggiustato il tiro. Ma fortunatamente sono stati bambini felici. Oggi ne sorrido, ma ricordo che c’era una mamma, casalinga perfetta, che portava a scuola un panino in più e mi diceva: “È per tua figlia, pensavo che non avresti fatto in tempo a prepararlo... ”. Non era cattiveria, bensì pregiudizio. Eppure non ho mai dimenticato la merenda per i miei figli: ma anziché una torta fatta in casa, compravo al volo un cornetto in panetteria...
Cosa consiglierebbe a una ragazza che vuole realizzare i suoi progetti lavorativi ma teme di non riuscire a creare una famiglia?
Non c’è una ricetta. Anzi, sì: è la ricerca del proprio personale punto di equilibrio. Le direi anche che non esiste un “momento buono” per avere figli. Tutti i momenti sono buoni. Anzi, per la carriera avere figli da giovani è meglio, perché all’inizio del percorso professionale l’assenza per maternità pesa meno e perché un po’ più avanti si può investire con più serenità sul lavoro.
Lei ha conosciuto molti malati. Ce n’è uno che le è stato particolarmente a cuore?
Difficile dire quale. Sono stata segnata soprattutto dalle mamme, dalla loro capacità di lottare e di resistere per i figli, e sempre con il sorriso sulle labbra. Quella che mi è più cara è la mamma di due fratellini miei coetanei e amici d’infanzia. Vivevano nel mio condominio, erano emofiliaci, e all’epoca non c’erano cure. Di notte dalla mia stanza, limitrofa alla loro, li sentivo piangere dal dolore. Non avevano speranza di diventare grandi, e invece grazie ai progressi della ricerca scientifica e alla tenacia della loro mamma ora sono ancora tra noi.
Oggi lei vive un altro passaggio personale: da settembre ha lasciato il ruolo di direttrice generale di Fondazione Telethon a Ilaria Villa. Come vive questa tappa?
Desideravo avere del tempo per me, per la famiglia, per leggere, studiare, svolgere un’attività di volontariato nella mia parrocchia. E fare la nonna accanto alle mie due nipotine...
Che tipo di nonna è?
Una nonna che parla molto, che racconta storie di vita. E che spera di riuscire ad appassionarle all’umanità.
Cosa le lasciano i suoi 15 anni alla direzione generale di Telethon?
Il privilegio di aver svolto un lavoro appassionante. E la responsabilità di aver affrontato le attese delle mamme che dal letto d’ospedale dei figli chiedevano risposte subito. Ma la ricerca è un progetto di lungo periodo, quindi noi in tantissimi casi sappiamo che stiamo investendo in un futuro che può non appartenere ai malati di oggi. Questa è stata sempre la cosa più difficile da affrontare.
Dottoressa Pasinelli, sappiamo che lei è una donna di fede. L’ha aiutata nella sua professione a contatto con i malati?
Mi sento costantemente in ricerca, sulla soglia, direi. E di fronte alla malattia di un bambino c’è l’eterno dilemma del perché. Si invoca un miracolo, ci si arrabbia. E poi ci si ferma.