Opinioni

Un incontro che mi ha cambiato la VITA. «La mia strada, leggendo Silvio D'Arzo»

Eraldo Affinati sabato 29 luglio 2023

Ci sono incontri che cambiano la vita. A volte lo si capisce subito, in altri casi serve del tempo. Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontare in prima persona per “Avvenire” le ragioni di una relazione che ha rappresentato una tappa significativa nella loro vita, perché ha suggerito un cambio di direzione, ha fornito la conferma della bontà di un percorso oppure ha portato un modo nuovo di guardare alle cose di tutti i giorni.

Nel 1976 avevo vent’anni, frequentavo la facoltà di lettere moderne all’università La Sapienza di Roma, la città dove sono nato e cresciuto, e stavo facendo il servizio militare di leva a Bergamo, nella caserma Montelungo, davanti ai giardini Margherita. Durante una licenza mi capitò di leggere la recensione di Pietro Cimatti a Essi pensano ad altro, uno dei testi giovanili di Silvio D’Arzo, pubblicato nelle edizioni Garzanti con la postfazione di Paolo Lagazzi. Il retro di copertina recava una nota a firma di Attilio Bertolucci. Acquistai il volume in una libreria oggi scomparsa di viale Europa, all’Eur. Mi bastò leggere qualche pagina per restare colpito: le frasi possedevano un ritmo di battuta inconfondibile, come il timbro di voce di un cantante famoso, non erano in alcun modo assimilabili alla prosa d’arte imperante negli anni in cui vennero composte; nell’interpunzione, ad esempio, esibivano lo stile del predestinato regalando al lettore un’esperienza estetica sorprendente, specie in considerazione della giovane età del loro autore.

Mi procurai subito tutti i libri allora disponibili dello scrittore nato a Reggio Emilia nel 1920 e qui scomparso a soli trentadue anni, a causa di una leucemia, che in realtà si chiamava Ezio Comparoni e non era mai stato ufficialmente riconosciuto dal padre. Al tempo in cui io lo conobbi non c’era Internet, ma fu sufficiente andare alla Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio per leggere Casa d’altri, All’insegna del Buon Corsiero, l’Osteria, Penny Wirton e sua madre e altri racconti per ragazzi. L’impressione di unicità darziana andò crescendo a vista d’occhio specie quando scoprii le splendide écritures che il giovane talento sprofondato nella sonnolenta provincia dello Strapaese durante il fascismo aveva dedicato agli scrittori inglesi e americani, sulla scia di Emilio Cecchi, che, insieme a Pavese e Vittorini, li aveva introdotti da noi, mostrando un’ammirevole e commovente capacità di riviverli in tutti i loro miti vitali: l’umanità di Joseph Conrad, la dimensione epica del colonnello Lawrence, la sapienza di Henry James, la pistola e i cinturoni di Ernest Hemingway. Presto mi procurai Nostro lunedì, titolo faulkneriano, nelle edizioni Vallecchi, il volume che riuniva le principali opere di Silvio D’Arzo, acquistandolo nella libreria Prandi di Reggio Emilia, anch’essa non più attiva. Fu l’inizio di una lunga fascinazione dagli esiti abbastanza imprevedibili, non solo e non tanto per quanto riguarda me stesso.

Pochi anni dopo decisi di dare la tesi di laurea proprio su questo autore, in quella stagione frequentato soltanto da rari anche se prestigiosi appassionati ( happy fews li chiamò Giovanni Raboni, che era, se posso dirlo, one of us). Relatore il compianto professor Mario Petrucciani, di cui non dimentico la passione e l’acribia con cui faceva leggere ai suoi studenti Dino Campana. Telefonai allo studioso darziano a quel tempo meglio accreditato, Rodolfo Macchioni Jodi, curatore della provvisoria opera omnia vallecchiana, che aveva firmato il celebre profilo nella collana dei Marzorati, il quale, forse per disincagliarsi dal supplemento d’impegno, mi dirottò su Anna Luce Lenzi, autrice di una monografia, appena pubblicata, sullo scrittore emiliano: Una vita letteraria. I n seguito sarebbe diventata mia moglie. Insieme a lei, quindici anni fa, abbiamo fondato la scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati: senza lo scrittore reggiano non ci saremmo mai conosciuti. Ma c’è una ragione meno personale che spiega tale intitolazione. L’omonimo personaggio, un ragazzo dalla maglietta gialla di chiara risonanza autobiografica, per quanto di stampo stevensoniano, la cui madre aveva enfatizzato agli occhi del figlio la figura del genitore assente, ci sembrava irresistibilmente assomigliare ai minorenni non accompagnati coi quali io avevo a che fare tutti i giorni come docente di lettere alla Città dei Ragazzi, la storica comunità educativa fondata a Roma da monsignor Carroll-Abbing dopo la Seconda guerra mondiale.

I Penny a cui noi ancora oggi insegniamo il verbo essere e avere, in un rapporto diretto, uno a uno, senza voti, senza classi e senza burocrazie, si chiamano Mohamed, Abdel, Irina, Francisca e vengono da ogni parte del mondo, spesso non sono scolarizzati ed hanno bisogno di una cura speciale, tesa a soddisfare le necessità di ciascuno, non tanto imperniata su un programma da svolgere, men che mai su un giudizio da formulare o una competenza da accertare, quanto piuttosto sull’esigenza che nasce dal loro sorriso, dalla loro amarezza e perfino dalla loro tracotanza. Ti metti di fronte a Ibrahim e provi a capire come aiutarlo, ma non fai in tempo a sederti che lui ti travolge scaricando sul banco una catena ininterrotta di ricordi affastellati uno sull’altro, apparentemente privi di logica. Ogni due o tre minuti, in mezzo al flusso magmatico della memoria, emergono spunti luminosi che però immediatamente si perdono nel vortice. Un marasma linguistico d’italiano embroniale nel quale sembra impossibile districarsi. Lì comincia il lavoro da eseguire per entrambi, insegnante e discente: conquistare la fiducia, dipanare i fili, battezzare l’identità, nel tentativo di trasformare un invalido spirituale in una persona autonoma e libera. Quanta responsabilità e quanta bellezza scopriamo in questa operazione di ripristino degli equilibri distrutti, nel sogno di ricostruzione, nella nostra lingua, di una nuova personalità!

Alla distanza posso dirlo con sufficiente sicurezza: Silvio D’Arzo è stato per me un incontro cruciale. Uno di quelli che segnano i passaggi più significativi dell’esistenza: prima la orientano, poi la scandiscono. Può uno scrittore determinare le scelte che siamo chiamati a compiere? Io penso di sì, con qualche precisazione. Se non avessimo già dentro di noi i cromosomi che ci faranno diventare davvero ciò che potremmo essere, l’esperienza della realtà non sarebbe così decisiva. Assomiglierebbe a un corto circuito che rischia di mettere fuori uso l’impianto elettrico. In tale prospettiva la scrittura acquista un valore fondativo. Ecco perché, ogni volta che un giovane migrante, analfabeta nella lingua madre, prova ad articolare la sua storia cercando i tasselli mancanti, esce dall’inconsapevolezza ed entra nella maturità, spirituale prima ancora che anagrafica. Questi ragazzi, dal momento in cui arrivano in Italia, devono spiegare a chi li accoglie chi sono e cosa gli è successo: lo fanno in numerose occasioni, con mezzi clamorosamente inadeguati rispetto al desiderio espressivo che li pervade, rivolgendosi all’operatore umanitario, al poliziotto, all’assistente sociale, all’insegnante…

Col tempo, in modi più o meno istintivi, il racconto dei nuovi Penny Wirton si coagula intorno ad alcune parole chiave, sempre uguali, pronte a tornare su se stesse come un refrain teso a comporre un resoconto che, pieno di reticenze, mediazioni e autocensure, corrisponde solo in parte a ciò che il profugo ha realmente vissuto. Quasi sempre si tratta di un adesivo frettolosamente incollato sulla parete scalcinata. Dico di più: nel momento in cui noi volontari guidiamo i nostri ragazzi verso una forma verbale compiuta che possa dare un senso al loro pensiero talvolta sconnesso, abbiamo l’impressione di raschiare con le dita sulla crosta della ferita: insieme al sangue vien fuori la verità. Ma non è questo in fondo, come dimostrò nella sua opera Silvio D’Arzo, figlio illegittimo, lo statuto della letteratura?