Chiesa e società. La Messa non è finita. Non contano solo i numeri
Mesi fa ho domandato al vescovo di un’agiata provincia del Nord quanti seminaristi ci fossero nell’antico seminario della sua città. «Uno», mi ha risposto. Una città universitaria, piena di studenti: e in quel grande palazzo, un ragazzo soltanto. «Ci sta venendo meno la terra sotto ai piedi», ho pensato.
Per questo il titolo in prima su Avvenire di mercoledì scorso, “La Messa non è finita”, mi ha colpito. Eppure la ricerca di due docenti di Demografia e Statistica dell’Università Cattolica di Milano, incentrata sulla diocesi ambrosiana, non riportava dati ottimistici. Venticinque anni fa Milano aveva circa 2.200 sacerdoti, oggi neanche 1.700. Sulla base di mortalità e calo delle vocazioni, nel 2040 in diocesi ci potrebbero essere 14 solo preti sotto ai 40 anni, e nessuno sotto ai 30. Nemmeno un giovane prete negli oratori, a giocare a pallone con i ragazzini. E di nuovo, la sensazione di una terra che manca sotto ai piedi.
Ma allora quel titolo, “La Messa non è finita?” Rispetto profondamente la Statistica. Tuttavia, almeno mi pare, la Statistica ha un limite: calcola, ma non può prevedere eventi inattesi. Le statistiche della mortalità in Occidente sono state ribaltate dal Covid, e quelle dell’import-export mondiale dalla guerra in Ucraina. Non solo poi epidemie e conflitti smuovono l’ordine prevedibile delle cose. Chi avrebbe immaginato per esempio che nel 1978 arrivasse un papa dalla Polonia, a dare una spallata al Muro di Berlino e a risvegliare la fede di tanti apparentemente “lontani”? Nella realtà, sull’ordine immaginabile della vita interviene a volte un fattore del tutto imprevisto. E dunque, non giurerei sul fatto che nel 2040 nessun giovane prete giochi a pallone negli oratori di Milano. Fra 17 anni. Sarebbe a dire che nessun ragazzino oggi meno che tredicenne sarà un sacerdote a Milano, a quella data. Forse. Può essere.
Certo fra i nostri figli le vocazioni sono un fatto molto raro. Ma, fra i figli degli altri? L’Italia, e la Lombardia, sono l’approdo di migliaia di profughi e migranti ogni anno. Abbiamo idea dei mondi che i figli di questa gente hanno traversato? Guerre, fame, viaggi disperati, genitori e fratelli perduti. Chi viene da orizzonti simili davvero sarà uguale a chi almeno materialmente ha avuto tutto? La precoce cognizione del dolore e della morte lascia un segno profondo. Può venirne, in qualcuno, anche un desiderio, una domanda di bene. (Vedo, a Milano, uscire dagli oratori a fine pomeriggio tanti piccoli ucraini e sudamericani e cinesi. Forse le famiglie ce li mandano semplicemente perché non stiano soli a casa. Ma chi può dire cosa coverà un giorno nel cuore di qualcuno di questi figli di poveri, come poveri erano una volta, quanto a origini, tanti dei nostri sacerdoti?)
E i ragazzini italiani invece, spesso con una famiglia divisa alle spalle, quelli che vedi davanti a un portone con lo zainetto, il sabato, mentre aspettano il papà, che è di turno questo fine settimana? Genera soltanto solitudine la solitudine, o non, magari in qualcuno, l’ansia di un bene più grande, di una scelta radicale? Cresce, a Milano come in tutta Italia, una generazione con una storia diversa e anche più dolorosa alle spalle. Non ci scommetterei, che nemmeno uno di questi bambini nell’anno 2040 sia un sacerdote. Che non ci sia, in quell’anno, un solo prete ragazzo, nei campetti delle parrocchie ambrosiane. Non ci scommetterei, che “la Messa sia finita”. In ogni caso i numeri della ricerca della Università Cattolica mi ricordano come la mattina presto mi succeda a volte di pensare che in ogni quartiere di questa Milano c’è almeno una chiesa in cui un sacerdote sta celebrando Messa feriale, per una scarsa manciata di fedeli. L’Eucarestia ovunque, offerta in ogni angolo della città, e quasi ignorata, mi pare un dono così sovrabbondante, e non visto. Se davvero, fra vent’anni, saranno così rari i preti da doverli trovare a fatica, forse noi cristiani ci accorgeremo di quanto abbiamo avuto - e di quale storia vorremmo continuare.