L'analisi. La meritocrazia? Un'illusione che giustifica le diseguaglianze
Il successo non dipende solo dal merito: contano anche l’aiuto di altre persone, il talento naturale, la possibilità di un’istruzione gratuita, la fortuna
La meritocrazia ai nostri giorni gode di una strana fama. Tanti politici, imprenditori, esponenti della società civile promuovono la società meritocratica come una società a misura d’uomo, l’unica all’altezza delle sue esigenze di giustizia sociale; molti filosofi, economisti, politologi, sociologi, vedono invece nella meritocrazia un’ideologia che legittima le disuguaglianze, una falsa promessa di mobilità sociale ed uguaglianza delle opportunità. Come in una doppia vita, la meritocrazia è Dottor Jekyll nel dibattito pubblico e Mister Hyde in accademia – con le dovute eccezioni da ambo le parti. L’interrogativo allora non è sulle ragioni o i torti di una parte rispetto all’altra, ma sulla natura dell’ambivalenza insita nella meritocrazia.
Per tentare di dirimere una matassa complicata, l’università di Cardiff ed il gruppo di ricerca Heirs ( Happiness and Relationships in Economics) hanno organizzato lo scorso 15 Aprile una giornata di studio e riflessione online sul tema della meritocrazia. The Illusion of Merit, l’illusione del merito: il titolo scelto per il workshop porta la consapevolezza che le questioni dirimenti legate alla meritocrazia sono legate al tema merito. Quattro relatori di fama internazionale – Jo Littler (City University of London), Robert Sugden (University of East Anglia), Daniel Markovits ( Yale) e Robert H. Frank (Cornell University) – e sedici studiosi e studiose di diversi ambiti (economia sperimentale, economia empirica, filosofia, teologia sociologia, politologia) si sono confrontati sullo status degli studi sulla meritocrazia oggi, sui problemi, e sulle sfide future legate a un tema che, tanto i suoi detrattori quanto i suoi sostenitori, ritengono centrale per le società contemporanee. Abbiamo pensato di riportare qui alcune delle loro riflessioni, che sono le nostre riflessioni: vogliamo sostanziare un dibattito pubblico da tempo pericolosamente autoreferenziale.
La meritocrazia piace a molti per le promesse insite nel suo ideale: valorizzazione dell’impegno e del lavoro individuale, lotta ai privilegi, mobilità sociale che, per usare le parole di Adam Smith, corrisponde al desiderio di migliorare le nostre condizioni (desire to better one’s conditions). Sarebbe un errore, nel criticare la meritocrazia, non riconoscere l’importanza e la legittimità di queste promesse. Fuori da partigianerie, chiediamoci invece cosa esse comportano e quali vengono mantenute nelle società meritocratiche. Per prima cosa, cerchiamo di capire se il successo è sempre equivalente al merito. Se così fosse, la pretesa della meritocrazia di separare i pochi 'meritevoli' dai molti 'demeritevoli', sarebbe pienamente fondata. Nella storia le oligarchie, i governi dei pochi, hanno sempre tentato di presentarsi come aristocrazie, i governi dei migliori (pochi). a meritocrazia sembra proprio adatta a questa funzione. Eppure quando guardiamo più in profondità nei successi individuali nella scuola, nello sport, in politica, in economia, vediamo che c’è molto di più del semplice merito.
C’è l’aiuto di altre persone, una buona dose di talento naturale, la possibilità di un’istruzione gratuita, ma anche quella che Frank chiama luck, la fortuna o il puro caso. Tutti fattori non meritocratici che, sommati ai nostri meriti, contribuiscono al nostro successo. Nel suo testo Success and LuckFrank ci racconta come, imbevuti dell’ideologia meritocratica e dell’idea che la misura del proprio successo sia la somma dei propri meriti, alcuni politici statunitensi si siano opposti a politiche redistributive e welfariste. Perché aiutare gli altri se io, con le mie sole forze, sono arrivato al top?
È curioso che un ragionamento del genere sia molto diffuso anche nel mondo degli affari, come se ci fosse un legame segreto tra meritocrazia ed economia di mercato. In realtà la tradizione liberale, e le sue differenti anime come Knight, Hayek e persino Rawls, hanno sempre saputo che il mercato non è un luogo meritocratico. Sugden, erede di questa tradizione, ci ha spiegato che il mercato è piuttosto una scuola di umiltà per l’ideale meritocratico, perché la ricompensa delle azioni individuali non dipende dal loro valore intrinseco, ma piuttosto dal valore che gli altri attribuiscono ai nostri sforzi. Se mi impegno a produrre cose che nessuno vuole comprare non potrò invocare i miei 'meriti' per avere una ricompensa. In un caso diverso, potrei produrre cose molto apprezzate e ricevere un alto compenso ma poi, al mutare dei gusti e delle preferenze, o di altre circostanze socio-economiche, le persone potrebbero essere meno disposte a pagare il frutto del mio lavoro: a chi farò appello allora?
Chi cerca meritocrazia nel mercato è destinato a rimanere (parzialmente) deluso. Certo è che, come diceva Hayek nel suo Legge, legislazione e libertà, una società di mercato difficilmente si reggerebbe senza 'l’illusione del merito' – chi si alzerebbe dal letto per lavorare senza il pensiero che gli sforzi di oggi verranno adeguatamente ricompensati domani? Forse è per questo che è molto diffuso tra i 'demeritevoli', cioè i perdenti della competizione meritocratica, quello che Jo Littler ha definito il deficit meritocratico, cioè l’accettazione dell’equità e legittimità delle logiche della meritocrazia anche davanti alle prove inconfutabili che successo e merito non sono la stessa cosa. Come se avessimo un bisogno innato di meritocrazia, oltre la sfera della ragionevolezza.
Questo meccanismo di autoinganno è tanto diffuso che a volte le persone creano 'meriti immaginari' per chi ha successo e, forse ancor più preoccupante, 'demeriti immaginari' per chi è in fondo alla scala sociale, gli ultimi, gli scartati, i poveri. Ritorna prepotente l’ideologia degli amici di Giobbe: il demeritevole è colpevole. Nessuno lo dice mai esplicitamente, ma dietro tanti discorsi, oggi come ieri, c’è l’idea che la povertà sia una colpa. In fondo il vero, grande problema della meritocrazia è che giustifica e legittima le disuguaglianze. Come se le disuguaglianze, che da sempre esistono, e forse sempre esisteranno, avessero bisogno di avvocati difensori. È evidente che se poniamo a confronto meritocrazia e clientelismo il discorso è già falsato. Il punto vero è che la meritocrazia è diventata la legittimazione etica della diseguaglianza, in nome di un grosso equivoco: che il talento sia merito (e non dono). L’altro effetto collaterale riguarda la povertà: se il talento è merito e quindi benedetto, il non talento diventa demerito e maledetto. La povertà come maledizione cresce insieme alla meritocrazia, basta guardare cosa accade nei paesi più meritocratici del mondo.
E allora che fare? Meritocrazia sì o meritocrazia no? Noi proponiamo di uscire dallo sterile aut-aut per proporre un dibattito pubblico sulla desiderabilità della meritocrazia e sul contenuto delle azioni meritorie che le società vogliono ricompensare. Un esercizio di riflessione collettiva, magari tramite lo strumento della democrazia deliberativa, dove finalmente possano crollare i muri tra accademia e società. La giustizia sociale, legata alle nostre esigenze profonde di giustizia personale, è uno dei beni comuni più preziosi che abbiamo. Ma se non troviamo un modo di custodirlo insieme, rischiamo di distruggerlo. Pensiamoci!