Radici di Futuro/8. La medaglia di un altro merito
Il libro Cuore è un libro sulla scuola, e quindi non è un libro sul merito. La scuola, tutta la scuola, non è stata mai fondata sul merito. Se la guardiamo da lontano e in superficie, vediamo i voti, qualche bocciatura, e pensiamo che la scuola somigli alle imprese: i voti come i salari, il profitto scolastico come l’avanzamento di carriera. Ma questa è una visione troppo distante e quindi sbagliata della scuola (e delle imprese). L’ideologia meritocratica che sta cercando con successo di occupare anche la scuola si basa sul dogma che i talenti siano meriti e quindi chi ha più talento deve essere premiato di più. Ma tutti sappiamo che questo dogma è un imbroglio, o quantomeno è illusione, per la società e ancor più per la scuola. Perché i talenti sono doni, e le nostre performance nella vita dipendono dai talenti-doni ricevuti, molto poco dai meriti (perché anche la mia capacità di impegno è dono). Quale merito per essere nato intelligente, ricco, persino buono? Per questa ragione la scuola si è ispirata a valori non solo diversi da quelli della meritocrazia ma opposti.
La scuola di tutti e per tutti è stata pensata e voluta per ridurre le diseguaglianze sociali e naturali che la meritocrazia, cioè l’ideologia del merito, invece aumenta. Tutti i bambini e le bambine vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. Tutti devono essere messi nelle condizioni di poter fiorire e raggiungere la loro eccellenza, non solo i più meritevoli. Tutti hanno diritto a cura, stima, riconoscimento, ammirazione, dignità anche se non hanno molti meriti o se ne hanno meno degli altri. Inoltre, la scuola è un meraviglioso giardino con fiori di talenti diversi: «Precossi, ti do la medaglia. Nessuno è più degno di te nel portarla. Non la do soltanto alla tua intelligenza e al tuo buon volere, la do al tuo cuore, al tuo coraggio, al tuo carattere di bravo e di buon figliolo. Non è vero – soggiunse voltandosi verso la classe – che egli la merita anche per questo? Sì, sì, risposero tutti a una voce». Precossi era figlio di un fabbro che beveva e ogni tanto lo picchiava. Ma anche lui ebbe la sua medaglia.
Non era la medaglia di Derossi, il primo della classe. Era la medaglia di una scuola diversa. Dopo De Amicis è arrivata Maria Montessori che ha eliminato i voti, e quindi don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana. La democrazia è stata una moltiplicazione delle medaglie di Precossi, che oggi si chiamano inclusione scolastica e insegnanti di sostegno; perché abbiamo imparato che nella vita dei bambini non ci sono solo i meriti: c’è la vita. Il giorno in cui qualcuno ci convincerà che anche la scuola deve essere fondata sulla meritocrazia inizieremo a dare medaglie tutte uguali e sempre agli stessi alunni, faremo classi e scuole speciali per i demeritevoli, le diseguaglianze esploderanno e la democrazia avrà finalmente ceduto il passo alla meritocrazia, che è il principale tentativo di legittimazione etica della diseguaglianza.
In Cuore si parla molto anche di lavoro. In quell’Italia lavoravano i poveri. Nei campi, nelle officine, nelle fabbriche non c’erano i ricchi, gli avvocati e i professori. Cuore ha donato parole molto buone sul lavoro degli operai e degli artigiani. Così scrive suo padre a Enrico: «Quando tu sarai all’Università o al Liceo, andrai a trovare i tuoi compagni di classe nelle botteghe o nelle officine… ; disprezza le differenze di fortuna e di classe, sulle quali i vili soltanto regolano i sentimenti e la cortesia». La neonata Italia stava provando a prendere sul serio quel principio di fraternità, caro anche a Mazzini, e sperava che le persone appartenenti a classi sociali diverse potessero imparare a scuola a sentirsi fratelli e cittadini prima delle molte diversità.
Il muratorino. È figlio di un muratore, uno dei compagni più amati da Enrico – che invece era di famiglia benestante. Un giorno lo invita a casa: «Il muratorino è venuto oggi, tutto vestito di roba smessa da suo padre, ancora bianca di calcina e di gesso». Cuore ci mostra spesso il muratorino nel suo gesto caratteristico e più simpatico: era un fenomeno a fare il “muso di lepre”, una risorsa relazionale che usa ogni tanto per trasformare un rimprovero severo del maestro in un sorriso corale. Parlando e giocando, il muratorino «mi disse della sua famiglia: stanno in una soffitta, suo padre è alle scuole serali a imparar a leggere, sua madre è biellese». La descrizione della scuola serale degli operai è tra le pagine più belle: stavano «a bocca aperta a sentire la lezione». In quegli uomini affamati di sapere ho rivisto i ragazzi incontrati nelle scuole dell’Africa e dell’Asia, con la stessa fame di sapere e di una vita migliore. Fanno poi merenda insieme, sul sofà: «Quando ci alzammo, mio padre non volle che ripulissi la spalliera che il muratorino aveva macchiata di bianco con la sua giacchetta». De Amicis conclude l’episodio con un brano di una lettera del papà di Enrico, dove troviamo parole sul lavoro tra le più belle della nostra letteratura: «Lo sai, figliolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché ripulirlo era quasi fargli un rimprovero d’averlo insudiciato. … E quello che si fa lavorando non è sudiciume, è polvere, è calce, è vernice, è tutto quello che vuoi; ma non sudiciume. Il lavoro non insudicia: non dir mai di un operaio che vien dal lavoro: è sporco». C’erano anche queste pagine nell’anima collettiva degli italiani che li fecero capaci di scrivere decenni dopo: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (Articolo 1).
I poveri. È un’altra lettera scritta dal papà a Enrico: «Non abituarti a passare indifferente davanti alla miseria che tende la mano». Noi invece ci siamo perfettamente abituati alla miseria del mondo; poi abbiamo capito che questa nostra indifferenza è diventata una nuova grande povertà del nostro tempo che ci impedisce di soffrire per la povertà degli altri per atrofia dell’anima. Non soffriamo più per la miseria perché ci siamo immiseriti moralmente noi.
Poi, come un arcobaleno inatteso, dentro queste parole sui poveri troviamo parole che mi hanno trafitto l’anima e l’intelligenza per la loro bellezza e verità: «I poveri amano l’elemosina dei ragazzi perché non li umilia, e perché i ragazzi che hanno bisogno di tutti, somigliano a loro». Questa frase è un distillato di un mare di sapienza. Quelle poche volte che un bambino o un ragazzo riesce ad avvicinare e a incontrare una persona in povertà – evento sempre più raro, perché la separazione dei ragazzi dalle povertà è uno dei tratti del nostro tempo impoverito che pensa che immunizzare i figli dalle povertà della vita sia per loro una ricchezza –, quegli incroci di sguardi è tra gli spettacoli più mirabili. Si crea una meravigliosa improbabile fraternità. I bambini, le bambine, i fanciulli e qualche volta i giovani non distinguono gli adulti tra ricchi e poveri: per loro sono tutti “uomini”. Certo, vedono le differenze nell’apparire, ma è come se non le vedessero, perché vedono l’anima. Quindi non provano quel senso sbagliato di compassione che umilia il compatito. Dall’altra parte, il “povero” (non amo usare la parola “povero” in modo generico) sa che il bambino è povero come lui – «hanno bisogno di tutti» – e così sperimenta con lui una vera uguaglianza. Nella mia infanzia sono stato amato da molti poveri, che mi hanno arricchito con la loro povertà, senza l’intenzione di volermi amare, semplicemente essendo quello che erano. E anche io ho amato loro con la mia infanzia e fanciullezza naturalmente fraterna e assolutamente sincera. Allora è vero che solo i bambini possono dare o fare qualcosa per i poveri senza umiliarli, insieme a quegli adulti che hanno lottato tutta la vita per salvare qualche dimensione della loro infanzia - da adulto mi è molto difficile stare da fratello accanto a un “povero”, ma quando accade è bello come nei miei giorni di fanciullo: «L’elemosina di un adulto è un atto di carità; ma quella di un fanciullo è insieme un atto di carità e una carezza: capisci?». Sì, lo capiamo.
L’officina. Precossi, un altro compagno, è figlio di un fabbro che suo figlio riuscì a redimere da una vita sbagliata grazie alla sua medaglia. Il ragazzo «studiava la lezione» sopra una «torricella di mattoni, col libro sulle ginocchia». Il padre invece lavorava: «Alzò un grosso martello e cominciò a picchiare una spranga, spingendo la parte rovente ora di qua ora di là tra una punta dell’incudine e il mezzo». E intanto «il suo figliolo ci guardava, con una certa aria altera, come per dire: “Vedete come lavora mio padre!”».
L’orgoglio per il lavoro dei genitori è come il pane buono dei bambini e dei ragazzi. La stima per il mondo e per gli adulti inizia stimando nostro padre mentre lavora – che i genitori lavorino è importante anche per la stima dei nostri ragazzi: i figli sanno anche che il papà e la mamma sono buoni e bravi anche se non lavorano, ma è compito di una buona società mettere ogni persona nelle condizioni di poter lavorare anche perché i figli possano dire con aria altera: “Vedete come lavora mio padre!”. I figli e le figlie sono orgogliosi per ogni tipo di lavoro dei genitori. Neanche qui distinguono i lavori che la società considera prestigiosi da quelli più umili, perché è la bellezza dei loro genitori a far belli i lavori che fanno – per i bambini i genitori sono la cosa più bella del mondo. Ecco perché forse non c’è dolore più grande di quello che prova un bambino quando sente umiliare il lavoro dei suoi genitori. È una profanazione nel cuore. La meritocrazia è anche una fabbrica di umiliazione di molti lavoratori e dei loro figli.
Da grandi, e al momento opportuno, i bambini capiranno che non tutti i lavori sono uguali, non tutti sono degni, non tutti sono pagati in modo giusto. Ma da bambini devono solo poter dire alteri: “Vedete come lavora mio padre!”.
l.bruni@lumsa.it