Il richiamo del Papa. La maldicenza è come un filo (l'equilibrio non esiste proprio)
A volte la differenza tra il parlare bene e la maldicenza è sottile come un filo invisibile. Per passare dalla parte sbagliata della riva basta un aggettivo infelice, una virgola, un silenzio che sa di condanna. Succede se la bontà resta senza allenamento, quando, da equilibristi quali siamo un po’ tutti, ci si sporge troppo sul bordo del pericolo con il rischio, presto o tardi, di finirci dentro. Gli esperti dell’animo umano e delle sue distorsioni sono chiari: più della caduta la colpa sta nell’esporsi alla possibilità di scivolare, quella che comunemente chiamiamo tentazione.
Il desiderio di apparire migliori di come siamo, la brama di salire ancora un po’ nella scala del potere, la 'necessità' di tarpare le ali a chi volerebbe più in alto di noi. E il 'parlare bene', nel senso di trovare vocaboli forbiti e immagini affascinanti, non è affatto un antidoto, anzi spesso apre le porte al 'parlare male' che vuol dire denigrare, insultare, calunniare. Costruire delle storie così verosimili da sembrare vere, accusare l’altro dei comportamenti sbagliati che teniamo noi, chiamare male il bene e viceversa. L’indugiare nella maldicenza, nel chiacchiericcio cattivo, tante volte insomma è un vulnus colto, di persone intelligenti, capaci di costruire un ordito maligno, una ragnatela in grado di soffocare anche i migliori, se non sono altrettanto scaltri. Il pensiero va al grande Barcellona, 'più di un club calcistico', come recita il suo motto, il cui ex presidente Josep Maria Bartomeu, ieri è stato arrestato insieme all’attuale direttore generale, al capo dell’ufficio legale e all’ex responsabile del personale. L’accusa, ma vale per tutti la presunzione d’innocenza, è pesante: si sarebbero avvalsi di una società esterna per diffondere sui social commenti negativi nei confronti dei giocatori, e non solo, contrari alla linea della dirigenza.
Tra di loro Piqué e lo stesso Messi, proprio il grande Messi. Non potendolo colpire sotto il profilo tecnico si sarebbe puntato a svilire il suo attaccamento alla maglia, l’unico patrimonio che non sfuma, in quanto sentimentale e non commerciabile, di una società sportiva. L’effetto, come si ricorderà dal clima velenoso dei mesi scorsi, è stato devastante: crollo di credibilità del club, diminuzione del valore economico degli atleti, sconcerto, rabbia, nel migliore dei casi distacco da parte dei tifosi. Se infatti ogni colpa del singolo ha anche ricadute su chi gli vive accanto e lo frequenta, quello del parlare male è per così dire un peccato particolarmente sociale. Basta pensare ai muri di sospetto e incomunicabilità che dividono tante famiglie o alle spaccature interne a comunità religiose malate di carrierismo. Il Papa ne parla spesso, l’ultima volta domenica all’Angelus, e usando parole forti, fortissime. Il pettegolezzo uccide, ha sottolineato in più di un’occasione, paragonando la lingua a una spada affilata, intrisa di veleno. La prevenzione allora è nel fare un passo indietro, nel rifiuto a dialogare con il male, nel silenzio, nel digiuno suggerito per questa Quaresima: dalla maldicenza, dal pettegolezzo. Dall’esporsi all’uso di parole anche apparentemente buone, per fare, consapevoli o no, il male. Perché la colpa non è cadere ma camminare sul filo, da equilibristi precari quali siamo, senza rete di protezione. Prima o dopo si scivola giù.