I social network sono una potenza ma è difficile che a Hugo Chavez basti un messaggio via Twitter, lanciato per di più da un ospedale di Cuba, per disperdere le voci sulla sua salute e tranquillizzare i venezuelani rispetto a una convalescenza (il presidente è stato operato il 10 giugno) assai più lunga di quanto annunciato. Sorte personale a parte, è soprattutto il Chavez politico, bolivarista e antiamericano, a godere di scarsa salute. Lontani sono i giorni in cui dal Venezuela poteva atteggiarsi a modello per un’America Latina in piena espansione economica, orgogliosa di sé e ansiosa di affrancarsi dall’ingombrante interessamento degli Usa. Un declino, quello del prestigio e della credibilità di Chavez, che si è compiuto in fretta, e soprattutto per tre ragioni. La prima è la contrazione dell’economia del Venezuela: l’industria del petrolio produce oggi meno di dieci anni fa; le nazionalizzazioni hanno azzoppato l’industria e l’agricoltura; la capacità di spesa dei venezuelani si è ridotta. Risultato: meno 3,3% nel 2009 e meno 1,6% nel 2010. La seconda è l’atteggiamento sempre più intimidatorio di Chavez verso le opposizioni, un disprezzo per la democrazia che non è passato inosservato. In febbraio un sondaggio di Latinobarometro in diverse nazioni sudamericane produceva per il Venezuela la valutazione di 4,5 su 10 in fatto di libertà. In Brasile, un analogo e più recente sondaggio ha mostrato che solo il 13% dei brasiliani si fida di Chavez. In Bolivia e Argentina non più del 35%. E stiamo parlando di Paesi amici del Venezuela, e di un Brasile per dieci anni governato da Lula, il leader che più di ogni altro aveva appoggiato il collega venezuelano. Terzo: le alleanze internazionali. Dalla Libia di Gheddafi alla Bielorussia di Lukashenko, dall’Iran di Ahmadinejad alla Cuba di Fidel e Raul Castro, Chavez non si è fatto mancare nulla in fatto di dittatori da esaltare come fieri difensori delle proprie nazioni. La malattia dell’uomo, che ha solo 57 anni, diventa così una spietata metafora di un tarlo che corrode il personaggio, presidente da 12 anni, e che, a dispetto delle molte pretese di modernità, riassume i mali tradizionali di molti Paesi in via di sviluppo, anche nell’America del Sud: inefficienza economica, autoritarismo, leaderismo esasperato, statalismo. Detto tutto questo, bisogna stare attenti a non confondere Chavez e i suoi atteggiamenti con fenomeni più sotterranei e più importanti. Il leader venezuelano ha interpretato nel modo più clamoroso e discutibile un’ambizione, anzi un sentimento, che non era certo solo suo. Quello di un continente che ha imboccato una strada nuova e vuole dialogare da pari a pari con chiunque e soprattutto con l’America del Nord, di cui ha per molti anni subito invece la più o meno benevola tutela. Nulla di straordinario, o di molto diverso da quanto accadeva in Russia o in Cina dieci anni fa. È il mondo che cambia. E che non smetterà di cambiare nemmeno in assenza delle improvvisate di Chavez e dei colpi di scena del "chavismo". Solo due mesi fa, trenta ministri degli Esteri si sono riuniti a Caracas (Venezuela, appunto) per dar vita alla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeiros, una specie di Ue sudamericana. Con tanti obiettivi magari confusi ma una sola certezza: tener fuori Usa e Canada. Nessuno, da quelle parti, è così folle da pensare di poter troncare con gli Usa. Non lo era nemmeno Chavez, che gli vendeva tanto petrolio. Nessuno, però, vuol rinunciare all’occasione di riequilibrare certi rapporti.