La Corte di Strasburgo ha condannato la Francia per non avere riconosciuto la paternità di bambini biologicamente figli di uomini francesi che li hanno avuti grazie alla maternità surrogata in India. Non è la prima pronuncia che favorisce, di fatto, la maternità surrogata sostenendo che lo Stato deve rispettare la vita privata delle persone, tutelata dall’art. 8 della Convenzione Europea, secondo l’interpretazione che ne dà la giurisprudenza. Nel 2015, la stessa Corte aveva legittimato il riconoscimento di figli ottenuti con la surroga di maternità, ma che non avevano alcun legame naturale con i genitori (Sent. Paradiso e Campanelli c. Italia). Nel caso di oggi - dal punto di vista giuridico assai complesso - il dato saliente è che la maternità surrogata è considerata illegale in Francia, e tale illegalità è sostanzialmente superata dalla Corte di Strasburgo, che apre di fatto la strada al riconoscimento generalizzato di una pratica che è rifiutata e contestata da molte leggi nazionali e da movimenti e organizzazioni che chiedono in Europa e nel mondo che essa venga respinta a livello internazionale.
Siamo di fronte, in altri termini, a un ulteriore intervento della giurisprudenza europea che tende a negare al legislatore nazionale il diritto di intervenire, valutare, dettare norme, in materie centrali come quelle della trasmissione della vita, e, in questo caso, di tutela della dignità della donna che non può essere utilizzata come strumento, materiale e corporeo, per soddisfare desideri ed esigenze altrui. Occorre fare attenzione a questo aspetto, perché da esso deriva la perdita quasi generalizzata di sovranità dello Stato in una materia nella quale devono essere contemperati i diritti di diversi soggetti. Non è in discussione, va detto subito, il diritto primario di tutelare i bambini che nascono in situazioni del tutto nuove rispetto al passato, perché i diritti dei minori sono al vertice dei diritti umani, a livello giuridico e sociale. Sono in discussione, però, altri diritti: quello del bambino a conoscere la verità sulla propria origine e nascita biologica, quindi anche il diritto a conoscere la madre; e il diritto della donna, in ogni parte del mondo, di non essere sottoposta a nuove forme di sottomissione, quasi a servizio di coppie che si trovino in condizioni agiate e riescano a sfruttare il suo stato di sudditanza oggettiva (sociale, economica, psicologica) per un rapporto che genera un figlio, che però poi scompare agli occhi della madre, non può avanzare pretese di affetto, di riconoscimento, di tutela.
Ancora una volta colpisce, nella sentenza della Corte, l’assenza di ogni considerazione su questo aspetto cruciale del tema affrontato, quasi che tutto si decida dentro il recinto del rapporto padre-figlio, e del diritto di chi fornisce il seme (padre biologico), ma poi utilizza il corpo altrui per ottenere un risultato che apparterrà a lui, soltanto a lui, cancellando dall’orizzonte la figura e il ruolo della madre. Torna quell’intrico, o viluppo, di ingiustizie, sottomissioni, umiliazioni che la realtà della maternità surrogata presenta agli occhi di tutto il mondo, e che la giurisprudenza dei Paesi ricchi sembra voler ignorare, di fatto legittimandola. E torna proprio in un Paese come la Francia che s’è distinta nei tempi più recenti per la coraggiosa e decisiva battaglia contro la maternità surrogata, organizzata e portata avanti anche da esponenti storiche del femminismo francese, come Sylviane Agacinski, e da personalità di diversa fede e idealità, come Rivka Weinberg, che sottolineano con insistenza lo scandalo di questa pratica perché «compromette la dignità della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come merce». Anche importanti documenti di istituzioni collegate al Parlamento europeo, più volte ricordati su "Avvenire", hanno interpretato e censurato la maternità surrogata come una pratica che umilia la donna e riduce la sua funzione materna a una logica commerciale e a strumento di altri.La sentenza di Strasburgo, infine, pone un problema urgente ai legislatori nazionali, che è quello di impegnarsi per affrontare, in tutti i suoi aspetti una tematica nella quale convergono elementi antropologici e sociali decisivi: il diritto dei minori a conoscere padre e madre, a formarsi e crescere fruendo di una vera doppia genitorialità. E la tutela della dignità della donna, che non può essere ridotta a strumento passivo proprio sul tema della maternità, di cui dovrebbe essere protagonista attiva e felice, anziché strumento da usare e poi abbandonare da parte di uomini, o coppie, che tutto decidono sulla base del proprio 'io', dell’affermazione dell’esclusiva volontà individuale. Sentenze come quella di Strasburgo, oltre a ignorare i diritti essenziali dei minori e della donna, sono frutti dell’oblio di una cultura umanistica che fa del diritto lo strumento per elevare la società, e difendere i diritti di tutti, anziché favorire il diritto del più forte. Non c’è tema come quello della famiglia, e delle nuove generazioni, che richieda una attenzione massima al profilo inter-relazionale tra bambino, padre e madre, alla realtà comunitaria domestica che rifugge dall’individualismo estremo, mentre chiede partecipazione, tutela della dignità di ciascuno, sensibilità massima per la crescita dei minori, i quali attendono tutto dagli adulti, anzitutto padre e madre, perché non hanno ancora niente di proprio.