Quel desiderio che non si insegna a parole. La madre di Gio sapeva «la» domanda
Il primo giorno, i quotidiani avevano tenuto titoli bassi. Storia straziante, ma, sembrava, privata, quella che veniva da Lavagna. Una di quelle notizie davanti alle quali anche i giornalisti più cinici si incupiscono: «Sedici anni, mio Dio, l’età di mio figlio». Ma poi, quando al funerale di Gio la madre ha detto che la Guardia di Finanza era stata lei a chiamarla, perché non sapeva più che fare, di colpo la storia di Lavagna si è fatta pubblica, e quasi corale. Di colpo ha riguardato tante madri e tanti padri che non sanno parlare con i loro figli, che intuiscono che qualcosa non va, che li vedono rientrare tardi, e fatti di qualcosa, o impasticcati: lo sguardo ancora poco tempo fa bambino fattosi assente, e i pensieri indecifrabili.
E tu che sei fuori da questi drammi silenziosi, sussulti: chiamare la Guardia di Finanza a casa? Per un figlio sedicenne che tiene in camera dieci grammi di hashish? Possibile non ci siano stati altri modi per parlargli, da che ha cominciato il suo viaggio nell’adolescenza? Per parlargli, per spiegargli, per abbracciarlo, per fargli vedere di che cosa si può vivere, davvero? Bussare alle Forze dell’Ordine sembra l’ultimo disperato tentativo, l’atto di forza di una madre che, come lei stessa ha detto, aveva provato tutto, e non sopportava più di vedere negli occhi di suo figlio quella nebbia, quello straniamento. Mentre attorno ti dicono che non c’è nulla di male, che lo fanno tutti. Che non c’è da drammatizzare.
Ma questa madre, lo dirà al funerale, ha un’idea chiara: tutti abbiamo ricevuto dei talenti. E abbiamo il dovere di svilupparli. Mentre, dice ai ragazzi presenti, «Qualcuno vuole soffocarvi». «Diventate protagonisti della vostra vita e cercate lo straordinario. Straordinario è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi, invece di mandarvi faccine su whatsapp. Straordinario è chiedere aiuto proprio quando ci sembra che non ci sia via di uscita». Chiedere aiuto. Certamente questa donna lo ha fatto per quel suo figlio adottato, che già si portava dentro un abbandono, prima dell’ultimo estremo tentativo. Non è bastato. Per Gio è tardi. Eppure sua madre non si arrende alla morte, e pensa ai coetanei. Ai suoi coetanei, e ai loro genitori. Che vedono, intuiscono, cercano di parlare, non ci riescono, fanno finta di niente, infine si arrendono: «La sfida educativa non si vince da soli nell’intimità delle nostre famiglie, soprattutto quando questa diventa una confidenza per difendere una facciata. Non c’è vergogna se non nel silenzio», dice la mamma di Lavagna. Ed è qui che la tragedia di un ragazzo di sedici anni si fa vicenda dolentemente pubblica. La useranno per dire che bisogna liberalizzare le droghe 'leggere', ma sarà ancora solo un aggirare il problema. Il dramma di una madre che vedeva il figlio andarsene lontano; e galleggiante in quel gaio vuoto di whatsapp, facebook, smartphone e auricolari sempre nelle orecchie, di parole proliferanti nel nulla, in cui non pochi dei nostri ragazzi si abituano a vivere.
E tuttavia qualcosa manca. Manca in modo sotterraneo ma drammatico, se per non pensarci e stare allegri bisogna inebetirsi, farsi, anche strafarsi. Che cosa manca? Quale profonda, dimenticata domanda di pienezza e di gioia soggiace in tante adolescenze che affondano nel nulla? La madre di Gio lo sapeva, che c’era quella domanda anche in suo figlio. E chissà quanto ha tentato, perché venisse via da quel nirvana 'normale' in cui lasciamo crescano in tanti. Che cosa può venire dalla tragedia della morte volontaria di un ragazzo di sedici anni? Forse almeno quell’«aiutamoci, solo il silenzio è vergogna». Forse almeno la coscienza che quel desiderio grande che abbiamo dentro non lo si insegna a parole, ma lo si contagia ai figli, agli alunni; solo se però prima lo riscopriamo, vivo, al fondo di noi.