Opinioni

Il direttore risponde. La longevità comincia con la giovinezza

giovedì 30 aprile 2009
Caro Direttore, il corale affetto che il Paese ha mostrato in occasione del centesimo compleanno del Premio Nobel Rita Levi Montalcini, ha rilanciato l’interesse dei media sull’individuazione dei fattori che concorrono a determinare la longevità. La vicenda umana della senatrice è esempio di uno stile di vita improntato alla sobrietà, accompagnato ad una straordinaria intelligenza e vivacità intellettuale, che riguarda un percorso personale unico. Guardando alla società italiana assistiamo complessivamente all’aumento della presenza di « grandi vecchi » che sta dando un forte impulso alla ricerca scientifica, orientata a rispondere a bisogni sanitari in crescita, collegati alle patologie tipiche degli anziani. Lo studio di farmaci a contrasto dell’Alzheimer e del Parkinson richiama forti finanziamenti, che garantiranno sicuramente risultati efficaci. Lo sviluppo della scienza medica rappresenta una garanzia fondamentale per la tutela della salute. Eppure esiste un rischio anche nella medicalizzazione della vecchiaia. Il nostro benessere personale si fonda su un equilibrio complesso in cui gli elementi affettivi, relazionali e sociali svolgono una funzione cruciale e determinante anche sul piano della salute fisica. Solitudine, senso di inutilità, perdita degli interessi, depressione, rappresentano fattori di alto rischio, proprio perché incidono pesantemente sull’articolata e ricca struttura dei bisogni umani. In questo senso, diventa esemplare la longevità di intellettuali, di scienziati ma anche di persone semplici che sono invecchiate mantenendo attivi desiderio di conoscenza, passioni civili e amore per la vita.

Paolo Bonafè Lido di Venezia

Oggi, caro Bonafè, la tarda età viene vista soprattutto come problema o, addirittura, come emergenza sociale. In un Paese che tende fatalmente a invecchiare, l’elevata quota di individui anziani agita i sonni di molti: dei sociologi, dei politici, degli amministratori pubblici, di quelli che devono far quadrare i conti degli enti previdenziali. In realtà, nell’odierna società complessa, la terza e la quarta età sono e devono essere considerate una risorsa, non un gravame. Non basta fornire adeguate pensioni, cure e terapie ( e anche su questo c’è ancora molta strada da fare) quando a tante persone anziane, forzatamente confinate nella solitudine, manca ciò che conta: una compagnia umana, una rete di relazioni che dia significato ai giorni tardi. Bisogna saper offrire agli anziani le opportunità di impegno e di coinvolgimento ( pratico, intellettuale, morale) che consentano loro di esprimere – quanto e come possono – la propria positività, di spendere bene il tesoretto dell’esperienza, sentendosi valorizzati nelle loro capacità, non sopportati o peggio rifiutati ed esclusi. L’altro rischio, altrettanto presente, è quello che s’affermi una visione della vecchiaia in chiave meramente salutistico­sanitaria. E qui la questione diviene generale perché è culturale, di valori, di concezione della persona. Il progresso della medicina e il miglioramento delle condizioni economiche hanno allungato di molto l’aspettativa di vita. Ma il tempo biologico « allungato » necessita di valori veri per non cadere inevitabilmente nella noia perché, come lei giustamente scrive, il « benessere personale si fonda su un equilibrio complesso » . Oggi si parla tanto di giovani in crisi. Ma i giovani di oggi saranno gli anziani di domani, altrettanto in crisi. Ecco allora che, vista in prospettiva, la cosa assume contorni davvero inquietanti. E, parimenti, assume massima importanza la necessità di una vera formazione alla vita. Perché una vecchiezza luminosa e appagante, per sé e per gli altri, è sempre il frutto di una vita ben spesa. Lo disse il grande filosofo Aristotele: «L’educazione è il miglior preparativo per la vecchiaia».