Opinioni

Il Paese in fiamme. La Libia contesa diventa una Somalia

Giorgio Ferrari martedì 21 aprile 2015
«Ti ricordi – dice Nashnush con la sua voce di cartavetrata – cosa diceva Gheddafi mentre la Nato bombardava Tripoli e i giovani rivoluzionari marciavano sulla capitale? Aveva detto che la Libia sarebbe diventata un’altra Somalia. Avevamo riso, te lo ricordi?, mentre aspettavamo i pescatori che tornavano dal mare e disponevano il pesce sulle bancarelle di Tagiura. Era la nostra primavera e io credevo che avremmo avuto un futuro migliore. Che stupido che sono stato, caro il mio giornalista. Ora la Somalia ce l’abbiamo davvero...». La voce avvilita di Nashnush – a poche ore dal tragico naufragio di centinaia di migrati partiti dalla Libia – crepita attraverso la linea telefonica disturbata. Tripoli, la sua città, non ha un governo, né un sindaco, né una polizia. Ma a Bengasi in compenso non va affatto meglio. Il tratto costiero della Libia, quello da cui partono le carrette del mare cariche di disperati disposti ad affrontare la probabilità della morte piuttosto che la certezza di una vita infame nei Paesi d’origine, è soltanto uno – anche se certamente il più drammatico – dei volti dell’ex colonia italiana, ma non l’unico.La Libia di oggi è significativamente diversa dal Paese che nel 2011 affossò il pluridecennale regime della Jamahiriya cullandosi nell’illusione di molti – e forse anche dei libici stessi – di avviarsi a diventare una moderna democrazia di tipo occidentale. Gli sforzi di creare un sistema parlamentare basato sul suffragio universale s’infransero rapidamente nell’anarchia che quasi subito seguì alla caduta di Tripoli e al consolidarsi dei piccoli e grandi interessi tribali. A un anno dalla morte di Muhammar Gheddafi, Tripoli e Bengasi erano già ai ferri corti, il vento di un separatismo che di fatto ripristinava quella diversità geografica prima che etnica fra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan già soffiava impetuoso e le grandi tribù – le stesse che il rais per oltre quarant’anni aveva saputo tenere divise e unite al tempo stesso con un uso astuto e spietato del bastone e della carota – si spartivano spicchi di potere e zolle di terra: gli Zintan padroni dell’aeroporto internazionale, i salafiti che s’installavano nelle caserme, i warfalla che puntavano gli occhi sui terminali petroliferi, bande di fuoriusciti dal miserando esercito regolare di Gheddafi ed elementi con le nere bandiere di Ansar al-Sharia che stabilivano il proprio feudo a sud di Bengasi. Di fatto, nessun governo aveva titolo per governare, nessuna coalizione trovava i voti per una maggioranza, le sedi stesse delle istituzioni venivano periodicamente attaccate dall’una o dall’altra fazione. In compenso più a sud, nel grande nulla del Fezzan, si era formato un corridoio che si saldava con il Sahel, una lunga autostrada di sabbia che dal Mali arrivava al Sudan e da cui transitava ogni tipo di merce, dalle armi alla droga, dagli organi umani alle cellule terroristiche.Oggi la situazione, se possibile, è ulteriormente peggiorata e il puzzle si è ulteriormente complicato. In Libia, dove agiscono 140 tribù e 230 milizie, si contendono la legittimità due differenti governi, uno che fa capo a Tripoli e Misurata, l’altro a Tobruk in Cirenaica. Il primo si avvale di una coalizione di milizie islamiste sostenute dalla Turchia e dal Qatar, il secondo – presieduto da Abdullah al Thani con il generale Khalifa Haftar e riconosciuto a livello internazionale – gode dell’appoggio dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e in certa misura anche della Francia (che auspicherebbe una divisione della Libia assumendo attraverso il Ciad il controllo del Fezzan e di riflesso tutelando i propri interessi nel Sahel) e della Russia. Un puzzle di interessi contrapposti e frammentati che ha generato un rovinoso vuoto di potere nel quale si sono insediate con grande facilità altre due tessere del sanguinoso mosaico libico: i jihadisti affiliati al Daesh – (Ad dawla al islamiya fi ’Iraq wa Shem), l’acronimo arabo per Is, lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi – e le organizzazioni criminali che si occupano del traffico di esseri umani. Fra il Daesh e questi lontani cugini degli Shabaab somali (la ragione sociale della "ditta" in fondo è la stessa: fare soldi con sequestri, traffici e pirateria) si è stretta un’alleanza di ferro basata sul reciproco interesse: fra Derna e Sirte, una lunga falce costiera di fatto controllata dai jihadisti, operano indisturbati i trafficanti di vite umane che si spartiscono con il Daesh un giro d’affari secondo soltanto all’economia criminale legata al traffico di droga. Ma i pirati e jihadisti potrebbero già essere pronti ad un salto di qualità: quello di rendere insicure le rotte nel Canale di Sicilia grazie a una flottiglia agguerrita di natanti in grado di attaccare non solo i pescherecci ma anche il naviglio commerciale e perché no?, anche la stessa Guardia costiera. Tutta "merce" preziosa per il Daesh, che potrebbe sfruttarla in due modi: facendosi pagare il riscatto o inscenando le ben note esecuzioni con i prigionieri in tuta arancione. Uno scenario da incubo, molto simile a quello tuttora in atto nel tratto di mare fra la Somalia e il Golfo di Aden. Con una sostanziale differenza: i pirati libici alleati del Daesh sono molto meglio armati dei loro omologhi somali e dispongono di missili terra-aria. Un vero incubo per i pattugliamenti degli elicotteri.In queste ore si parla di un possibile blocco navale delle coste libiche. Impresa sostanzialmente inattuabile, oltre che onerosa per numero di mezzi da impiegare e dove i rischi per il personale militare potrebbero essere superiori ai benefici. Né la mediazione dell’Onu con l’inviato Bernardino Leon sembra al momento offrire grandi speranze: al terzo round di colloqui in Marocco le posizioni delle diverse fazioni (e soprattutto delle potenze regionali che le manovrano e le sostengono) sembrano sempre vicine ad un compresso che dia vita a un governo di unità nazionale ma di fatto non arrivano mai ad un accordo. Ora si parla di Roma come possibile sede dell’incontro tra i rappresentanti delle milizie rivali. «A salvare le banche siete stati bravissimi, voi europei», dice Nashnush. «Il problema – ammette Duna, un tempo in forza al Dipartimento Esteri di Gheddafi – è uno solo: viene prima la questione umanitaria o vengono prima gli interessi regionali e internazionali? Per l’Italia certamente la priorità va data al traffico di vite umane, ma l’Europa del nord mi sembra assolutamente sorda sul tema. Sbaglio?» Non sbaglia, purtroppo. Fino ad oggi quel "dovere morale" che ci si aspetterebbe da democrazie mature come quelle della Ue è venuto meno.