Speranza. La libertà di scegliere il male: il caso Impagnatiello e il Natale necessario
Era capace di intendere, la sera del 26 maggio ‘23, quel giovane barman di via Manzoni a Milano, quando uccise con 37 coltellate la fidanzata Giulia, al settimo mese di gravidanza. Omicidio, procurato aborto, con le aggravanti di premeditazione e crudeltà: ergastolo per Alessandro Impagnatiello. Nella stessa giornata è stato chiesta la medesima condanna per FilippoTuretta, che uccise l’altra Giulia, giovanissima. Non sappiamo al momento che deciderà la Corte. Colpisce però che in entrambe queste atroci storie ricorrano le parole “premeditazione” e “crudeltà”. Impagnatiello cercava sul web il veleno per topi, poi cominciò a somministrarlo alla fidanzata, nel sonno: alla sua donna che gli dormiva accanto, inerme, il ventre già pesante del loro bambino. Un anno fa, la reazione comune fu: un pazzo. Solo un pazzo può fare una cosa simile.
Ma nella requisitoria delle Pm milanesi questa teoria è contraddetta duramente. No, non un pazzo quello che avvelenava la fidanzata e il figlio, e poi nella cornice del Caffè Armani sorrideva mentre shakerava gli aperitivi: che ragazzo simpatico, dicevano i clienti, lasciandogli una larga mancia. Lo stesso uomo ha sferrato 37 coltellate alla sua compagna, senza fermarsi, senza pensare che in lei moriva, intanto, anche il loro bambino.
Davanti a storie simili noi tendiamo, appunto, a difenderci: un alienato, uno “altro” da noi, andato lontano dalla umana comunità. No: «L’essere umano è capace di fare cose drammatiche senza nessun disturbo psichiatrico. Fa paura accettare questa verità, che anche gli uomini normali possano commettere delitti efferati, ma dobbiamo tutti avere il coraggio di accettarlo», avevano affermato le due Pm, in Assise. (Gli uomini, e le donne, aggiungerei: partendo dalla “belva di via San Gregorio” nel Dopoguerra, per arrivare alla madre che abbandona una figlia di pochi mesi a morire di fame e di sete, o a quella che seppellisce i suoi neonati in giardino).
Un’affermazione netta e in controtendenza, quella delle magistrate milanesi. Per decenni, dagli anni ’70 in poi, di ogni assassino si è cercato di mettere in luce la fragilità o la psicosi, o la famiglia e la società che lo avevano oppresso, quasi a dire che un uomo non è mai cattivo di suo, ma è travolto da un male che non gli appartiene. Il tenace lascito di Rousseau: “L’uomo nasce buono”.
Invece, in una storia di abissi, due donne hanno detto ciò che hanno visto nei meandri di bugie, premeditazioni, silenzi dell’imputato. Uno che ha ucciso, e in quel modo, perché Giulia e la seconda sua “fidanzata”, alleatesi - e quel bambino, poi – avrebbero rovinato la sua “immagine”: di giovane vincente barman nella location top di Milano. (E perdonate il linguaggio, ma è quello che si usa qui: location, top, immagine – immagine, soprattutto. La faccia esteriore, la sola che conta).
«Questo processo è stato un’occasione per tutti noi per affacciarci sul burrone, e ci ha mostrato la banalità del male», concludeva la requisitoria contro Impagnatiello: la stessa espressione con cui Hannah Arendt commentò i processi, in Israele nel Dopoguerra, agli aguzzini dei lager nazisti.
Il male opaco, pianificato come da uno scrupoloso ragioniere: il topicida, o, nella tragedia dell’altra Giulia, le corde, i coltelli, i sacchi nello zaino, per l’ultimo incontro. Il male tirato su con ordine, mattone su mattone, senza un sussulto. Senza mai dire: mio Dio, cosa sto facendo?
Incupisce ulteriormente, la conclusione del processo Impagnatiello. Dunque, un uomo come gli altri. Uno che ha scelto di essere malvagio.
La nostra libertà ci può spaventare, quando vediamo dove può arrivare - e senza neanche una guerra attorno, nella pace. La Chiesa lo insegna da sempre, che ci portiamo dentro una ferita, ma quanto desueto suona oggi, parlare di peccato originale. Invece, eccolo: è germogliato tra sorrisi e happy hours, nel cuore di Milano, tra le nostre case. In una sera di maggio è scoppiato.
Si può provare paura. È una giusta paura, è il “liberaci dal male” del Padre nostro. Sappiamo ancora il peso accorato che meritano quelle tre parole? Ma solo dentro la cognizione del male può nascere una domanda di salvezza. In un tale desiderio, il Natale che viene non è la zuccherosa sbobba di Babbi e renne cui ormai sembriamo quasi arresi, ma è il nascere di uno che viene a salvarci. Annunciato da millenarie profezie, riconosciuto da saggi che si misero, ansiosi, in cammino nel deserto, per vedere quel bambino. Quello che è morto in croce e ha vinto la morte – la nostra morte.
Natale, in questa consapevolezza, ritorna ciò che è: l’ad ventum, il venire di Cristo, il Leone. Natale, sapendo il nostro male, si palesa necessario. Ciò su cui fonda, della nostra speranza, la ragione.