La sentenza della Consulta. La legge ora necessaria non è il diritto alla morte
Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli
Caro direttore, la decisione della Corte costituzionale di bocciare il quesito referendario che mirava a rendere legale l’omicidio del consenziente si basa esplicitamente sul principio – di rilievo costituzionale – della difesa del diritto alla vita, soprattutto dei più deboli. Come ha rilevato il professor Lorenzo D’Avack, insigne giurista e presidente del Comitato nazionale per la bioetica «l’unica condizione ipotizzata per poter chiedere l’eutanasia era la capacità di intendere e di volere. Un po’ poco, in una materia così delicata e dai risvolti etici e sociali così profondi».
D’altro canto, che la tutela della vita sia un fine primario dello Stato lo abbiamo visto in questi due anni di pandemia, quando tutti quanti, con maggiore o minore entusiasmo, ci siamo assoggettati a norme spesso pesanti per non dire penose, che limitano significativamente alcuni diritti costituzionali, in nome del diritto fondamentale alla salute, che è evidentemente uno degli aspetti del più generale diritto alla vita.
E questo perché la vita e la morte non sono materia unicamente privata, soprattutto nel momento in cui si intende delimitare la possibilità di una conclusione pianificata della vita stessa in casi di intollerabili sofferenze fisiche: esiste quindi una responsabilità della comunità civile rispetto a queste problematiche che non può essere ridotta nel 'Sì' o 'No' a un quesito referendario e merita un dibattito costruttivo che coinvolga i partiti, le tradizioni culturali, la comunità scientifica e la società civile, per trovare una sintesi rispettosa della pluralità e perciò davvero laica.
Affermare l’assoluta autodeterminazione del soggetto significa fare astrazione dal fatto reale e tangibile che ognuno di noi è all’interno di una cerchia di relazioni familiari, sociali e civiche che rendono la nostra esistenza parte di una realtà complessa che non rimane comunque indifferente rispetto al fatto che una delle persone che compongono tale organismo decide di porre fine ai propri giorni chiedendo per questo l’aiuto di altri.
La Corte costituzionale aveva esplicitato con chiarezza, fin dal 2019, una serie di limiti e condizioni per ammettere la non punibilità di coloro che aiutano altri a commettere suicidio (che peraltro è altra cosa dall’omicidio del consenziente), il quesito referendario allargava invece oltre misura tale possibilità in nome di una cultura individualistica che, oltre a rendere possibili non pochi arbitrii, non è comunque conforme ai valori personalisti e comunitari che sono alla base della nostra Carta fondamentale.
Per questo è opportuno e necessario un intervento del Parlamento, il quale, detto per inciso, esiste proprio per questo, ossia per recepire le indicazioni della coscienza sociale e per dare loro forma legislativa secondo le modalità definite dalla Costituzione e nell’alveo di quanto, nel caso specifico, la Consulta ha ritenuto di indicare. Certo, non è la prima volta che l’iniziativa referendaria viene a essere concepita come una forma di pressione nei confronti del legislatore, soprattutto in ripetuti casi di inerzia rispetto a una situazione che l’opinione pubblica – o, meglio, una porzione di opinione pubblica (spesso indirizzata da persuasori nemmeno tanto occulti) – ritiene non più tollerabile. In questo caso però si mirava a forzare la mano al legislatore andando decisamente oltre rispetto ai termini costituzionali indicati dalla Corte e mettendo a repentaglio la vita dei soggetti più deboli e più fragili.
È quindi necessario, nel progresso della discussione sulla legge all’esame della Camera, che a prevalere sia l’offerta di alternative alla persona sofferente, sia sotto la forma di cure palliative sempre più adeguate sia sotto quella di un reale sostegno psicologico e sociale.
Soprattutto le forze progressiste, nel dibattito parlamentare, dovranno superare la tentazione di un approccio individualistico e solipsistico, tipico della cultura radicale, che con grande disinvoltura cerca di strumentalizzare il dolore di malati gravi e delle loro famiglie, utilizzando lo schermo della pietà per aprire la strada a una totale 'disponibilità' della vita umana che confligge con il sentire profondo del nostro Paese.
Dobbiamo liberarci dalla logica neoliberista che mercifica la salute ed il benessere, riducendo i deboli a quella condizione di 'umanità di scarto' tante volte denunciata da papa Francesco, coscienti, e la Consulta lo ha confermato ancora una volta, che esiste un diritto fondamentale che la Repubblica deve tutelare e promuovere e non è certo il diritto alla morte, ma alla vita. E alla vera dignità.
Emiliano Manfredonia è presidente nazionale delle Acli