Israele e Palestina. Legge del più forte: la ferita aperta di Masafer Yatta
Militari israeliani presidiano il sito Masafer Yatta, vicino a Hebron
«Il significato profondo della nonviolenza è quello di fondare l’infinita apertura dell’anima». Sono parole di Aldo Capitini, tratte da Italia nonviolenta, un saggio pubblicato nel 1949. Non ci vuole di meno – meno ampiezza interiore, meno respiro d’orizzonte – per resistere in questo modo, senza altre armi che la tenacia della denuncia, a un crescendo di violenza e di ingiustizia. È ciò che fanno, e che subiscono, da una ventina d’anni gli abitanti di Masafer Yatta, un’area collinare di una decina di villaggi e poco meno di tre migliaia di persone a sud di Hebron, Cisgiordania.
A questo pensavo, ascoltando le testimonianze del loro sindaco, Nidal Yunes, e del preside e insegnante di scuola, Aitham Abu Subha, rincalzate dagli agghiaccianti video dell’attivista e fotografo Heid Azelin. Tre puri folli – tre fra molti, molti più di quanti ne immaginiamo – venuti in delegazione nel quadro dell’iniziativa #SaveMasaferYatta, promossa da Assopace Palestina con sei conferenze in altrettante città e località italiane, in corso questa settimana. Un’iniziativa che ha avuto il suo momento più simbolicamente istituzionale il 14 marzo a Roma, con una conferenza stampa presso la Camera dei deputati, alla presenza di alcuni parlamentari (Laura Boldrini, Stefania Arcari, Nicola Fratoianni e Arturo Scotto) e di Francesca Albanese, Relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani in Palestina. Ci tiene a sottolinearlo Luisa Morgantini, che alla difesa dei diritti umani calpestati nell’indifferenza o con la complicità del mondo cosiddetto occidentale ha dedicato la vita intera: «Bisogna far conoscere ciò che veramente succede nei Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza».
Masafer Yatta ne è un esempio terribilmente parlante: incurante delle esplicite norme di diritto internazionale che proibiscono alla parte occupante l’espulsione di una popolazione residente nella propria terra, l’esercito israeliano ha dichiarato quel territorio zona di esercitazione militare, e solo la presenza di attivisti internazionali – e di israeliani dissidenti – rallenta l’espulsione progressiva della popolazione, a vantaggio, come ovunque, dei crescenti insediamenti di coloni. Colpisce in particolare, nelle parole del preside, la descrizione di una scuola costruita coi fondi europei e demolita addirittura coi bambini dentro, costretti a fuggire dalle finestre.
È stata, questa, una risposta alta e degna all’incontro avvenuto pochi giorni prima fra Giorgia Meloni e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in questi giorni cerca sponda nelle principali capitali europee, quasi in fuga dalle centinaia di migliaia di israeliani scesi in piazza a manifestare contro l’imbrigliamento della Corte Suprema prospettato dal suo governo, con il favore delle destre estreme. Certo, la Corte Suprema di Israele ha purtroppo raramente ascoltato le istanze sollevate dai palestinesi che si vedono negati i diritti umani elementari, strappata la libertà di movimento, di espressione, di istruzione, rapinata la terra e l’acqua. Anzi, in questo caso ha reso esecutiva, nel maggio dello scorso anno, una sentenza definitiva di sgombero dell’area, autorizzando quello che per il diritto internazionale è un vero e proprio crimine di guerra. E tuttavia, le proteste dei cittadini israeliani stanno forse aiutando l’opinione pubblica mondiale a prendere coscienza di quale sia il senso e lo scopo di un’occupazione militare che in mezzo secolo ha finito per divorare a colpi di pulizia etnica graduale più del 60% del territorio assegnato dagli accordi di Oslo all’istituendo Stato palestinese.
«Gerusalemme capitale è l’arbitrio del più forte»: questo il concetto centrale della lettera aperta che Francesca Albanese ha inviato alla presidente del Consiglio italiano nel giorno del suo incontro a Roma con Benjamin Netanyahu (“Il Manifesto”, 10 marzo). In un’intervista concessa il giorno prima a “la Repubblica” il premier israeliano aveva fatto appello perché l’Italia sposti la sua ambasciata a Gerusalemme, cioè la riconosca come capitale. David Lerner su “Domani” (10 marzo) ha giustamente ricordato la posizione ufficiale della comunità internazionale, e cioè che passi di questo genere devono essere negoziati con i palestinesi, che a loro volta rivendicano Gerusalemme come capitale. Lerner ha qualificato come «assist di “Repubblica”» il titolone con la richiesta in prima pagina, e ha ragione: ma questo linguaggio sportivo è un po’ leggero per il dolore senza fine e senza riscatto che da settant’anni lacera quella tragica terra. Ecco cosa scrive Francesca Albanese: «Mi preme sollevare, in punto di diritto, l’assoluta inammissibilità di tale richiesta: chiede il riconoscimento di una situazione illegale (l’annessione di Gerusalemme) come contropartita a un’altra situazione potenzialmente illegale (il commercio di risorse provenienti dal territorio occupato) ». Illegalità insanabile, perché tocca «uno dei cardini dell’ordine internazionale: il divieto di acquisizione territoriale attraverso l’uso della forza». Albanese ricorda alla presidente Meloni che «come il popolo ucraino, anche quello palestinese, a Gaza, in Cisgiordania e Gerusalemme, è sotto occupazione».
Nelle dichiarazioni rese alla stampa dai due premier, dopo l’incontro, non si è fatta menzione di questa richiesta. E tuttavia Giorgia Meloni ha tenuto a ricordare che l’Italia aveva aderito nel 2020 alla presa di posizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), che nel 2016 ha equiparato la critica del sionismo politico alla critica dell’antisemitismo. Come interpreti il sionismo, Netanyahu lo ha dichiarato al mondo nel 2019, affermando pubblicamente che «lo Stato di Israele non è lo Stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente ». Lo ha fatto riferendosi all’avvenuta approvazione, il 19 luglio 2018, del Nation- State Bill, che definisce lo stato di Israele «Stato-Nazione del popolo ebraico», e che è ora legge fondamentale. Questa legge stabilisce che dei «diritti nazionali» (in particolare l’accesso o anche solo la conservazione della proprietà di terreni e immobiliare, la sua tutela, a Gerusalemme stessa, dall’espropriazione violenta) non godono neppure gli israeliani non-ebrei. Dei cittadini dei territori occupati neppure parliamo. E bisogna anche sapere che, proprio sulla base della dichiarazione dell’Ihra, la stessa Albanese – in occasione della pubblicazione del suo rapporto all’Onu – è stata fatta oggetto di violentissime accuse di antisemitismo.
Tutto ciò ha generato anche l’appello a Liliana Segre pubblicato su queste pagine il 10 marzo scorso, a firma di un nutrito gruppo di semplici cittadini italiani che hanno, a loro volta, veduto con i propri occhi cos’è la vita quotidiana nei territori occupati. È l’appello rivolto a una persona per eccellenza giusta, che «si batte contro ogni discriminazione e forma di razzismo», perché aiuti a spezzare proprio questa falsa equazione, lei che di recente ha affermato l’insostenibilità dell’equidistanza fra chi viola il diritto internazionale e chi subisce la violazione. Parlano, nella lettera, anche degli israeliani che si battono contro le molte leggi di Israele che discriminano non solo i palestinesi dei territori occupati, ma anche i cittadini israeliani se non sono ebrei. Basti solo ricordare che la legge sulla cittadinanza, benché sospesa, priva ancora del diritto di cittadinanza i palestinesi che vivono nei territori occupati e che sono sposati con cittadini israeliani, così che molte famiglie palestinesi sono perciò impossibilitate a riunirsi.
Forse ogni donna, ogni uomo di buona volontà, dopo aver assentito in cuor suo alle parole di Liliana Segre – «non è concepibile nessuna equidistanza; se vogliamo essere fedeli ai nostri valori, dobbiamo sostenere il popolo ucraino che lotta per non soccombere all’invasione, per non perdere la propria libertà» – dovrebbe chiedersi se logica ed etica non obblighino ad estendere questa affermazione anche al popolo palestinese, che dal 1948 è sottoposto alla più lunga occupazione militare della storia moderna.