La guerra ci cambia. Nel dolore viene il tempo dell'universalismo
L’Europa ha la vocazione, la capacità di proporre un’altra via tra capitale e nazionalismo, qualcosa che ha a che fare con una idea di bene comune, di interesse comune e planetario Non sarà più possibile credere alle vecchie narrazioni che hanno continuato a farci credere di poter essere schierati con l’uno o con l’altro
Questa guerra ci sta cambiando e, comunque sarà il suo esito, ci trasformerà radicalmente. Non ci sarà più possibile essere ingenui e credere alle narrazioni che si sono formate un secolo fa e che hanno continuato a farci credere di essere da una parte o dall’altra. Certo, alcuni faranno finta, per bisogno di una copertura, di appartenere a un mondo o a un altro, altri lo faranno per bieco interesse e sempre più pochi per ignoranza. La storia delle ragioni che stanno sotto l’occidente americano e sotto l’alternativa dell’est, l’anti-occidente russo o cinese, sarà una storia finita per buona parte di noi.
Cominciamo con l’ignoranza, una caratteristica peculiare del nostro Paese. Anni fa ebbi l’opportunità di imbattermi in Kenya in un famoso politico italiano che era stato per molto tempo segretario del Partito comunista siciliano. Apparteneva a un’illustre famiglia di comunisti di antica tradizione. Di fronte al mare, in un’atmosfera rilassata dopo pranzo gli chiesi: «Ma davvero nessuno di voi si accorse, alla fine degli anni 80, di cosa stava avvenendo in Unione Sovietica? Eravate invitati ai congressi nazionali, andavate ogni anno a Mosca, non percepivate alcun segno? ». Mi rispose che nessuno nel partito sapeva davvero il russo e che ai politici italiani veniva offerta la versione ufficiale come a tutti gli altri. Confesso che rimasi stupito, ma mi rendo conto ancor oggi che la narrazione sull’impero americano è così diffusa che in fin dei conti in Italia la conoscenza dell’altro impero è in mano agli specialisti (orientalisti?).
Una intera generazione di cui faccio parte ha ideologicamente insistito sulle colpe atlantiche perché era la narrazione più a portata di mano ( Vietnam, Iraq, Afghanistan). Gli imperialismi russo e cinese sembravano meno rumorosi, meno ipocriti e questo li scagionava (Afghanistan, Georgia, Siria, Libia, Tibet, la nazione uigura). Toni Negri scriveva 'Impero' e tutti – e lui stesso – pensava al capitalismo americano e occidentale (e non aveva mai letto Kapuscinski e il suo 'Imperium'). Ecco, questa ignoranza è ormai ingiustificabile, è la guerra a mostrarcela in tutta la sua nudità. Ovviamente la tiritera continua: perché difendete gli ucraini e non avete difeso i curdi? Perché vi scandalizzate degli stupri dell’e- sercito russo e non di quelli avvenuti nei Balcani? È la solita solfa di un’altra componente che la guerra sta facendo fuori: l’identitarismo. Sembra che la mia generazione sia stata solo capace di passare alle altre l’idea che la ragione sta da una parte soltanto e che ci siano delle avanguardie che sono baciate dalla grazia di essere il vessillo della ragione. È la vecchia storia delle avanguardie rivoluzionarie che oggi viene coniugata con il discorso delle minoranze.
Le minoranze sono l’avanguardia della società, le maggioranze sono pura reazione. Come si fa a pensare a un bene comune, in qualunque società partendo da questo presupposto? Co- me si fa a governare un Paese credendo che bisogna dare retta solo alle avanguardie o alle minoranze? Risposta: si fa diventando dei dittatori come Putin o degli speculatori finanziari, dei ricchi dittatori, insomma, il sogno di Trump. L’America di Biden è, comunque, in mano a un identitarismo da cui difficilmente riuscirà ad uscire, una nazione di corporazioni ideologiche e di minorities in contrapposizione violenta, in cui ogni identità è brandita come arma. La Russia di Putin è in mano a un luogotenente del Kgb che del mondo ha una visione rancorosa e della gente l’idea più bassa che si possa avere, incarna – lui che disprezza Lenin – l’ideale del capo che sa dove deve andare il mondo perché lui diventi finalmente tenente e tutto il mondo soldati semplici: una visione spietata e troskista, alla fine. Ovviamente il nazionalismo ucraino è figlio di tutto questo, anche se è stato proprio Putin a dargli l’occasione di nascere e irrobustirsi. Se l’Europa farà il suo dovere, cioè quello di accogliere l’Ucraina, dovrà fare i conti con questo nazionalismo anzitutto.
E qui c’è un terzo punto importante, forse l’unico che la guerra non spazzerà, ma forse, se sopravviviamo, farà emergere. L’Europa unita non è l’America; per motivi storici ha una idea, per quanto primitiva, di un bene comune, di una maniera di governare che non sia determinata da una appartenenza. Forse è il lascito di una lunga storia di imperi che però avevano creato un’idea di universalismo (dopo guerre e strazi). La Chiesa e la religione hanno giocato tra identitarismo e universalismo, ma sicuramente negli ultimi decenni è il secondo che sta prevalendo. Francesco sa bene di rappresentare un cattolicesimo non recintabile e 'in uscita', dunque anche un’istanza di bene universale e un messaggio antiidentitario.
Il Papa è l’unico, forse, tra i rappresentanti delle religioni, a pensare e a predicare che il bene altrui non è convertirli, ma seguire la via fraterna della compassione e della comprensione. È una istanza che l’Europa ha raccolto proprio perché due guerre terribili glielo hanno insegnato. I nostri movimentini no-global non hanno capito che non c’è nulla di più rivoluzionario oggi che rivendicare l’universalismo. Il tempo degli antagonismi è finito. Il tempo delle ragioni da una sola parte è scaduto. Il tempo delle nazioni è terminato. E questo ha a che fare con l’esito che vogliamo dare alla guerra, se possiamo davvero sperare di influire sul suo esito.
L’imperialismo russo è la caricatura della globalizzazione occidentale che premia solo una parte, lo è nel rancore e nella impotenza, perché non si capisce che tipo di Impero può oggi imporre con le armi un Paese isolato o, al più, alleato con un altro Impero vasto e poco affidabile come il cinese. L’Europa ha la vocazione, la capacità di proporre un’altra via, una via non più ottocentesca, tra capitale e nazionalismo, ma qualcosa che ha a che fare con una idea di bene comune, di interesse comune, di interesse planetario. Lo sta facendo con molta timidezza, lo sta facendo con i rottami di un sistema che non si è ancora svegliato. Lo fa in Italia con un ministro della Transizione ecologica che viene dal mondo che dovremmo abbandonare e con un presidente del Consiglio che non ha il coraggio di dare una sterzata energica all’economia italiana verso l’indipendenza dalle fonti fossili.
Però la direzione in cui la storia sta andando è questa, i segni dei tempi da leggere è che tutto il resto è marciume del passato ed è un marciume che vuole distruggere il nostro – e il suo proprio – futuro. Il nostro compito è crederci profondamente e finalmente costruire una narrazione diversa, dove l’universalismo ci faccia vibrare come hanno fatto molto e male le ideologie identitarie.