La grande cambiale. I ribaditi (e duri) impegni di Trump
Prima l’America. Il protezionismo teorizzato ed esplicitamente declinato: comprare prodotti americani, assumere lavoratori americani. Il potere torna alla gente. Il populismo e l’antipolitica incarnati nella campagna ed esposti con la retorica del discorso inaugurale: la transizione non è tra presidenti, ma da Washington alla gente, a voi. Due i grandi temi in un intervento breve e asciutto come preannunciato dal nuovo capo della Casa Bianca, il 45° leader degli Stati Uniti. Il primo ci riguarda direttamente, il secondo dà forza a un’idea che percorre l’Occidente e, quindi, non può non toccare tutti.
Donald Trump si presenta, onestamente, con gli slogan grazie ai quali è stato eletto. Riportare occupazione stabile e ben pagata sul suolo americano, togliere privilegi e ricchezza alla "casta" al governo, che ha goduto della crescita a scapito dei cittadini. I "forgotten", i dimenticati, sono i potenziali beneficiari della svolta trumpiana. In questo senso sembra quasi esserci una sintonia con il messaggio del Papa giunto nei minuti del giuramento. «La statura dell’America continuerà a essere misurata soprattutto dalla sua preoccupazione per i poveri, gli emarginati e i bisognosi che, come Lazzaro, bussano alla nostra porta», gli ha scritto Francesco.
Ma i dimenticati rischiano di essere gli immigrati e tutti i meno fortunati del Pianeta, se davvero si concretizzeranno le politiche di chiusura alla circolazione delle persone e ai commerci che sono in programma. Non solo migrazioni ed economia, però. Anche la geopolitica planetaria potrà vedere un riassetto di proporzioni considerevoli se il nuovo presidente darà seguito ai proclami di ieri. Sradicare il terrorismo islamico, l’unico accenno al mondo e alla politica estera del suo discorso. «Basta sprecare miliardi, basta finanziamenti per eserciti di altri Paesi e per difendere confini che non sono i nostri».
Si tratta di qualcosa in più che un addio al "gendarme americano". Probabilmente, un boomerang anche per quel Paese più ricco e sicuro che Trump stesso ha promesso. È sufficiente ricordare che gli Stati Uniti hanno in essere trattati con più di 30 nazioni allo scopo di contribuire alla stabilità politica ed economica delle aree più rilevanti per i propri interessi. E che 210mila soldati a stelle e strisce sono dislocati nel globo. L’Unione Europea, mai nominata ma vituperata alla vigilia, è il primo partner commerciale con 700 miliardi di dollari di interscambio e l’alleato vitale dal dopoguerra a oggi. L’America farà davvero da sola con lo scudo spaziale antimissile prospettato in queste ore?
E farà da solo Trump contro l’apparato, i partiti e la classe dirigente, che nel suo discorso ha accusato in modo inedito di avere tradito il proprio mandato a servizio del Paese? Un’imputazione di spergiuro, verrebbe da dire, se si considera che è arrivata pochi istanti dopo che tutti hanno potuto sentire a che cosa impegna il giuramento di presidente e vicepresidente. Non importa più chi comanda, ma che la gente controlli e possa esprimere finalmente la propria voce, venendo ascoltata. Poco prima, nell’introdurre la cerimonia pubblica, il deputato Roy Blunt aveva ricordato come la vittoria della democrazia si manifesti nel passaggio pacifico da un leader al successivo. La distanza di prospettiva non poteva emergere in modo più palese.
Le proteste, attese, ci sono state, forse non pesanti come qualcuno temeva. Tuttavia, l’appena insediato inquilino della Casa Bianca non ignora quanto divisivo si annunci il suo primo mandato (ha già pensato allo slogan per la rielezione tra 4 anni). E il terzo tasto su cui ha insistito è stato quello del patriottismo, per il quale ha istituito una giornata nazionale come suo primo atto di governo. Il "presidente della gente" sarà anche il bersaglio di molta gente, e la carta dell’unità nello spirito della nazione come entità in cui rispecchiarsi e identificarsi è un richiamo alla storia e ai sentimenti profondi dell’America. L’unico fugace accenno alla questione razziale, piaga dolorosa anche dopo gli otto anni del primo leader afroamericano, è stato giocato sulla comunanza del rosso sangue che sgorga dalle vene dei patrioti, di qualunque colore sia la loro pelle.
Uniti come dice la Bibbia, protetti da Dio, ha rimarcato il presidente, senza però addentrarsi nei temi cari alle Chiese e per i quali molti cristiani Usa lo hanno preferito nelle urne a Hillary Clinton. In definitiva, il messaggio è chiaro. Ora stop alle chiacchiere dei politici, è il momento di un cambio a partire dal quale nessuno più, dalle periferie di Detroit alle pianure ventose del Nebraska, sarà ignorato e lasciato solo. Un messaggio così chiaro, però, corre il pericolo di essere troppo chiaro. Trump è arrivato a Washington sull’onda della sfiducia e della protesta.
Non è un uomo della classe operaia o della classe media, anche se ne ha sposato a parole la causa. Ha vinto cominciando a fare terra bruciata delle mediazioni della democrazia rappresentativa. Semplifica e parla alla pancia. Se non garantirà in tempi rapidi alcuni dei risultati che ha prospettato, comincerà anch’egli a perdere il consenso di chi l’ha votato, travolto del meccanismo che egli stesso cavalca, mentre difficilmente potrà riconquistare il favore di chi oggi lo avversa. In quel caso, si troverà presto costretto ad accelerare ulteriormente sul terreno del populismo. Nel suo discorso non c’è altro che una grande scommessa garantita con una grande cambiale che, quando finisse all’incasso, Trump non potrà verosimilmente pagare.