La grammatica. Papa Francesco e i grandi nodi dell'oggi
La pandemia che sta scuotendo dalle fondamenta il mondo intero non passerà senza lasciare una traccia profonda. Anche se non sappiamo ancora quale sarà l’esito sulle biografie personali e sulle dinamiche sociali. Come ha insegnato Romano Guardini, quella tra l’individuo e la società costituisce una delle tensioni polari attorno a cui si struttura la vita umana.
Nel tentativo di trovare un equilibrio tra il riconoscimento dell’autonomia individuale, il suo spazio di libertà e autodeterminazione, e le esigenze derivanti dal gruppo, l’organizzazione, la società, tale tensione produce soluzioni provvisorie e parziali, destinate però sempre a trasformarsi. La storia degli ultimi decenni è stata segnata da una forte spinta verso il polo dell’individuo, inteso come particella elementare indipendente e orientata al proprio benessere materiale. Come se, a partire dalla fine degli anni 60 del Novecento, si fosse sentita l’urgenza di ampliare lo spazio della soggettività. Per questo si è parlato di società individualistica. Una tendenza che si è progressivamente rafforzata, cambiando radicalmente il nostro modo di essere.
La società globalizzata della crescita infinita – che ha caratterizzato gli anni 90 e i primi anni 2000 – ha rappresentato uno straordinario esperimento storico con luci e ombre. Che oggi, dopo il terzo choc globale in meno di vent’anni, abbiamo il problema di ripensare: l’11 settembre prima (con a tema la questione del rapporto tra le culture) la crisi finanziaria del 2008 poi e oggi la pandemia del coronavirus mettono in discussione quel modello di sviluppo.
Forzati dalla realtà, siamo così spinti verso il polo opposto, quello del gruppo, del legame sociale, del controllo della libertà individuale. Col rischio di passare repentinamente dal polo dell’io al polo del noi. Rischio già evidente fuori dell’Occidente – dove si affermano un po’ dappertutto regimi autocratici – e che da noi si manifesta a destra con le pulsioni sovraniste e a sinistra con le tentazioni tecnocratiche (che immaginano di utilizzare il digitale come strumento di forme di sorveglianza soft per garantire quella coesione di cui pure sentiamo il bisogno). Spinte che l’insicurezza pandemica rende ora ancora più forti.
La linea che papa Francesco sta tracciando – dalla Laudato si’ alla Fratelli tutti – costituisce un punto di riferimento fondamentale per evitare che la giusta critica alla società individualistica ci spinga fino all’estremo opposto della società chiusa o della sorveglianza. Col suo linguaggio, Francesco sta provando ad aiutarci a ridefinire la grammatica delle relazioni sociali. Cosa di cui questo tempo ha estremo bisogno
Non si tratta tanto di dire che l’essere umano è sempre in relazione con gli altri. Questo lo sapevamo già. Il punto è qualificare il termine 'relazione', sapendo che esso non è la soluzione quanto piuttosto il terreno su cui si risolve quella tensione da cui siamo partiti. La società digitale iperconnessa rischia di stabilire solo relazioni funzionali tra individui nell’assoluta indifferenza reciproca. All’estremo opposto, le società chiuse – che pensano di esistere 'al di qua' di un muro – costruiscono relazioni asfittiche e conflittuali. Ed è per sciogliere questa contraddizione che il Papa parla e agisce, ponendo tre questioni fondamentali (e tendenzialmente rimosse nella cultura contemporanea).
Primo: siamo in relazione e non possiamo che esserlo. Con gli altri, con l’ambiente, con il cosmo, con Dio. Una affermazione per certi aspetti autoevidente, ma che abbiamo negato per anni, affermando che esiste un io 'a prescindere', del tutto autonomo e indipendente. Ce lo ricorda l’ombelico che portiamo sulla pancia: noi siamo stati relazione prima ancora di essere individui. Possiamo esistere solo dentro reti di relazione. Secondo: questa dinamica relazionale si svolge oggi su tanti livelli. Relazioni con i nostri famigliari, con gli amici, con i vicini di casa, con i colleghi di lavoro o di studio; ma poi anche relazioni che ci legano ai mondi culturali locali e nazionali a cui apparteniamo, relazioni digitali che arrivano ad abbracciare il mondo intero; relazioni gioiose e liberanti - come quelle nei confronti dei poveri - e altre dolorose e oppressive.
Come dentro un vortice, tutto scappa via troppo velocemente. Così, il nostro problema è quello di fare un po’ di ordine in un marasma in cui è facile perdersi. E questo vuol dire riconoscere che abbiamo bisogno di limiti e di confini, rifuggendo dal mito del globalismo che tanta fortuna ha avuto negli ultimi decenni. Terzo: nessuna sfera di relazione può pensarsi come chiusa, cioè separata e indipendente da ciò che sta al di là. Al contrario ogni relazione non diventa patologica solo se riconosce il proprio legame con ciò che la supera. Con altre relazioni.
E questo vale per una famiglia, una comunità, una nazione. Le relazioni, in definitiva, sono vitali quando si danno confini porosi. Fino a includere non solo tutto il pianeta e tutti gli uomini (secondo il principio di solidarietà), ma anche il mistero che ci apre al senso religiosa di Dio. Reimparare la grammatica delle relazioni: mi sembra questo il suggerimento prezioso che papa Francesco sta cercando di dare alla Chiesa e al mondo. Dentro la crisi pandemica c’è una spinta fortissima a ripensare le relazioni tra noi, col pianeta, con Dio. Sulle tracce di Francesco possiamo provarci.