Povera Chiesa – è stato scritto – se per reagire a eventuali abusi nei confronti dei minori continuerà ad affidarsi al diritto interno, cioè a quel diritto canonico che ai "non esperti" appare del tutto inadeguato «nella definizione del crimine (o se vogliamo, del peccato)» e strumento «della discrezionalità assoluta dell’autorità ecclesiastica». A prendere la parola su di un tema di dolorosa attualità è stato Gian Enrico Rusconi, sulla
Stampa dell’altro ieri. Ma l’articolista non coglie alcuni tratti distintivi essenziali della questione.Primo. È almeno dal XIX secolo che gli Stati hanno rivendicato a sé la competenza a giudicare dei reati commessi da chierici. Non c’è più da tempo quello che una volta si chiamava il "privilegio del foro": oggi è il giudice statale competente a giudicare penalmente, a norma della legge penale statale, e a condannare se c’è il reato, chiunque commetta il crimine di abusi sessuali nei confronti dei minori, anche se sacerdote o religioso. La Chiesa riconosce serenamente questa competenza. E se c’è un aspetto che lascia perplessi delle recenti polemiche, sul quale non si è rivolta l’attenzione, è che a fronte dei casi proposti e riproposti, molti dei quali risalenti a decenni addietro, pochissimi sono quelli giunti al giudizio dell’autorità giudiziaria civile. È da domandarsi se del contestato «silenzio» si debba fare carico solo alla istituzione ecclesiastica.Secondo. Nella Chiesa, è fondamentale la distinzione tra peccato e reato, e quindi tra il foro penitenziale, quello comunemente detto della confessione, nel quale viene amministrato il sacramento della penitenza, e il foro giuridico, esterno, nel quale all’accertamento della colpevole violazione di una norma penale canonica segue la irrogazione di una sanzione. Non ogni peccato è un reato canonico; ma certamente tra questi ultimi vi sono peccati fra i più gravi.Terzo. Fermo restando che, come in ogni altra cosa umana, anche il diritto positivo della Chiesa è sempre perfettibile, occorre dire però che allo stato attuale esso non pare inadeguato nella definizione del crimine di pedofilia, sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista oggettivo. Il paragrafo 2 del canone 1395 del Codice di diritto canonico, infatti, punisce espressamente il chierico che abbia commesso, con un minore, atti che siano contrari al sesto precetto del Decalogo. I contenuti del reato sono stati ulteriormente precisati in documenti successivi alla promulgazione del codice, come ad esempio nel caso dei provvedimenti assunti con riferimento alla situazione statunitense, dove per primo si è manifestato il fenomeno. D’altra parte, l’irrogazione della pena (che può essere graduata in ragione delle circostanze che possono ulteriormente aggravare il fatto) segue anche se il fatto commesso sia privo di effetti scandalosi, non sia abituale, non ci sia recidiva. E si deve notare come la perseguibilità del reo non sia lasciata alla discrezionalità dell’autorità ecclesiastica. Non c’è, insomma, alcun divieto di denuncia all’autorità civile.Il provvedimento di Giovanni Paolo II
Sacramentorum sanctitatis tutela, del 2001, e successive integrazioni, hanno poi reso più rigida e severa la disciplina di tutta la materia.Ma soprattutto occorre dire che il diritto penale canonico – che, è bene sottolinearlo di nuovo, non si sostituisce a quello dello Stato – ha una finalità del tutto diversa dai diritti penali secolari. Occorre partire dallo spirito proprio del diritto della Chiesa, che è strumento per favorire il bene spirituale del credente, per comprendere che le pene canoniche hanno eminentemente una finalità
medicinale: sono dirette a far cogliere al fedele la gravità del male commesso; a fargli percepire il danno compiuto nei confronti degli altri, ma anche a se stesso, alla propria anima; sono volte a favorire un cammino di conversione e di emenda, a mostrare un obiettivo di possibile riscatto.È un diritto che presuppone la fede, e solo la sussistenza di questa rende penosa, quindi efficace, la sanzione.