Analisi. La Giordania che sostiene Gaza e vota in bilico tra Hamas e l'acqua di Israele
Una manifestazione pro-Palestina ad Amman
In Giordania tutto è pronto per le elezioni parlamentari del prossimo 10 settembre. Il clima è apparentemente calmo, complice un’estate ancora più torrida del solito, ma gli Osservatori della missione dell’Unione Europea sono sul posto dai primi di agosto per monitorare tutto il processo elettorale, soprattutto da quando il governo giordano ha rafforzato la legge sul cybercrime che di fatto limita la libertà di espressione, ha attuato lo scioglimento di 19 partiti politici su 45 ai sensi della legge del 2022 e ha proceduto all’arresto di 1,500 persone a seguito della manifestazione più violenta, dal 7 ottobre a questa parte, davanti all’ambasciata israeliana, lo scorso 6 aprile.
Amman, ancora di più le città di provincia, è tappezzata di manifesti. Tranne per il partito dei Fratelli musulmani giordani ( Jabat al-amal al-islam, detto anche Fronte Giordano di Azione) e il suo leader, Murad al-Adaileh, che tuona dalle piazze slogan anti-governativi e apertamente critici nei confronti della «supina sudditanza della monarchia al regime sionista», nonostante non possa correre ad elezioni e tra gli arrestati dello scorso aprile ci fossero soprattutto suoi sostenitori - tutti i proclami politici sono molto moderati e incentrati sulla fiducia nei confronti del re Abdallah e del figlio primogenito Hussein, appena diventato padre.
È una posizione molto comune tra i cittadini giordani da generazioni e soprattutto tra i cristiani, anche di origine palestinese. Come Daoud Kuttab, già professore all’università di Princeton e fondatore della prima radio comunitaria on line in Giordania, Ammannet Radio. Palestinese cristiano, sessantenne, Kuttab è un attento osservatore della società e dei fenomeni di radicalizzazione. Nel Duemila è stato premiato dall’International Press Institute americano come “World Press Freedom Hero”, e tiene l’attestato ben incorniciato in bella vista nel suo ufficio di Amman, tutt’altro che lussuoso. Nonostante la Giordania si trovi sia fisicamente sia idealmente tra due fuochi (Israele e la Lega araba) e nonostante il ministro degli Esteri giordano Ayman al-Safadi si sia affrettato a rinsaldare i legami della Giordania con Teheran, Kuttab resta positivo sulla tenuta dello Stato.
«Il re e la regina sono stati molto espliciti e hanno parlato chiaro in sostegno dei palestinesi, oltre a essere stati i primi nella regione a portare aiuti diretti con gli aerei cargo alla popolazione di Gaza. Questo ha contribuito a ridurre la rabbia popolare. Non credo che le elezioni saranno problematiche né che la legge sul cybercrime sia così impattante sulla libertà di stampa. Del resto, noi qui in radio riceviamo molte richieste di parola e non abbiamo problemi di censura. Credo che il governo stia permettendo alle persone di esprimersi e questa è una cosa buona».
Di certo non la pensa allo stesso modo una vasta fetta del Paese, trasversale per età, condizione sociale, istruzione, genere e origine: è quella che manifesta nei sit-in, con una certa varietà di sfumature: senza arrivare alla rabbia e alla violenza della notte del 6 aprile davanti all’ambasciata israeliana, i frequenti presidi del venerdì mostrano una chiara adesione alla causa palestinese, ma anche alle logiche di Hamas, di cui spesso compare qualche bandiera. E i 40mila morti a Gaza non fanno certo cambiare idea. Yousif Urgiul ha 50 anni: era bambino durante la Nakba; ha la barba curata e indossa orgogliosamente la sua kefiah palestinese. Non perde un sit-in del venerdì. Con calma determinata lancia i suoi strali, mentre intorno la manifestazione si scioglie, tra una selva di bandiere palestinese.
«Siamo in Giordania e siamo una cosa sola con i gazawi. Il nostro sangue è lo stesso: non è stata versata acqua e non resteremo in silenzio. L'unica soluzione è porre fine all'occupazione israeliana». I più agguerriti hanno sono però i ventenni: soprattutto donne, globalizzate e con coscienza politica. Il ministero delle Risorse Idriche è il più presidiato dai manifestanti: qui davanti si misura la dipendenza della Giordania da Israele, che corre lungo il confine di terra e si alimenta di una necessità disperata di acqua ed energia elettrica.
Non è facile per il governo né per il re della dinastia hashemita gestire questa situazione. Il Paese confina con Israele e con la Siria sulla linea del fiume Giordano. Anche in virtù di questa delicata vicinanza e della necessità, da parte della Giordania, delle risorse idriche garantite dal fiume, il Paese normalizzò i suoi rapporti con Israele nel 1994. I rapporti sono stati rafforzati nel 2021 con un accordo quadro che coinvolge gli Emirati Arabi per la costruzione di un impianto di energia solare da 600 megawatt in favore di Israele. In cambio, Tel Aviv ha promesso di inviare 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata alla Giordania arida. Ma dopo il 7 ottobre, il decollo del progetto non è stato garantito e i cittadini giordani ne hanno chiesto la cancellazione.
Tamara Ayoubb ha lunghe trecce che fanno capolino dall’hijab- kefiah bianco e nero appena appoggiato sopra il giubotto di pelle: «Sono membro del movimento Jordan Boicots, che rifiuta la normalizzazione ambientale e chiede alle autorità di non rinnovare il contratto con i fornitori israeliani». Il contratto non è stato rinnovato lo scorso 9 marzo, ma la Giordania non può restare a secco così a lungo e non può sottrarsi alle sue promesse fatte a Israele, pena un’instabilità cronica ed enormi disfunzioni nei servizi ai cittadini. In più, qui pesa la situazione umanitaria e il ruolo del Paese nell’essersi fatto carico, per anni di tutte le crisi regionali, accogliendo i palestinesi allontanati da Israele a più riprese, per non citare iracheni e siriani. Adesso che i tagli all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, sono in corso, benché molti Paesi donatori abbiano fatto marcia indietro rispetto alle accuse mosse contro di essa da Israele, la situazione non potrà che peggiorare.
Olaf Beker, direttore operativo di Unrwa Affaires, ci riceve nel suo ufficio di Amman e non nasconde le sue molte preoccupazioni: «Lavoriamo a stretto contatto con il governo giordano. Il re è stato probabilmente il più strenuo difensore delle necessità dei gazawi e sta tamponando le richieste con aiuti dalla Giordania verso Gaza, per via aerea e con convogli di terra. Ma è molto importante comprendere che i nostri servizi non possono essere sostituiti. L’Unrwa è l’unica agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuti aggiuntivi ai palestinesi: facciamo funzionare scuole, ospedali, e nessun’altra agenzia dell’Onu lo fa. Trasferire queste attività a qualcun altro non è fattibile». Non è fattibile anche perché i numeri da sostenere risultano enormi: i beneficiari sono almeno 400mila, registrati nei dieci campi ufficiali nel Paese, attivi dagli anni Cinquanta. Senza contare i 20mila rifugiati palestinesi arrivati negli ultimi dieci anni in Giordania dalla Siria. La gestione di queste realtà abitative, dell’istruzione e del servizio sanitario sono tutte a carico di Unrwa.
Nel campo di Wehdat, le ragazze della scuola elementare e media sciamano gioiosamente nel cortile per l’intervallo di metà mattinata con i loro hijab bianchi e la divisa rosa. Questa è solo una delle 161 scuole finanziate in Giordania dall’agenzia Onu. In totale, si parla di 107mila studenti. Non distante, c’è uno dei 25 centri medici che distribuiscono 600mila terapie l’anno. Quando entriamo, una decina di famiglie sono in attesa di prestazioni di base con il ticket in mano. Delhal Mahmujouda aspetta da mezz’ora con il figlio dodicenne. « Dobbiamo fare gli esami del sangue. Li abbiamo sempre fatti gratis, qui. Se chiudesse la clinica non saprei dove sbattere la testa». La donna conosce i rischi possibili: si parla per il prossimo anno di un taglio di più del 51% del budget annuale dell’agenzia, pari a 145 milioni di dollari, se non rientreranno in pista tutti i donatori.
Ma più che questo, il taglio dei fondi significa la cancellazione delle opportunità: nascere e crescere in un campo è un’esperienza di esilio, ai margini di una società comunque tollerante, come quella giordana. Se ciò accadesse, non ci sarebbero più storie come quella di Haitam, quasi trentenne, sposato e padre di figli, nato e cresciuto nel campo Nasr, un dedalo di vie costellato ad ogni angolo da piccoli capolavori di street art. Haitam ha studiato lì, si è affrancato dalla violenza ed è diventato educatore. Oggi insegna ai nuovi nati nel campo che la violenza non è la strada per il successo. « Le condizioni difficili di vita possono generare sentimenti negativi, ma è anche possibile riattivare sentimenti positivi. Quando ero più giovane ho ricevuto un certo tipo di servizi nel campo Nasr. Grazie a essi ho preso su di me una certa responsabilità che mi ha reso chi sono adesso. Spiego ai miei ragazzi che studiare o lavorare con onestà è la migliore scelta possibile. Il nostro modello etico è dedicare la nostra vita al servizio delle persone, oltre che alla nostra causa e alle cose in cui crediamo». Mentre dice questo, un paio dei suoi “ragazzi” giocano in classe al dottore anziché imbracciare i piccoli simil-kalashnikov di plastica di cui sono comunque piene le bancarelle di giocattoli del mercato interno. La storia di Haitam non fa notizia ma ha già fatto la differenza nel campo Nasr.