La geografia della Lega nell'era di Aquarius. La pretesa di ridisegnare Italia e Mondo
La geografia, più ancora della storia, è sempre stata l’ossessione della Lega, da quando ancora la parola “Nord” faceva parte integrante del simbolo. Era, non a caso, un’indicazione di tipo geografico, adattissima a riassumere il programma di un movimento politico che, in quella fase, si considerava impegnato principalmente a ridisegnare la mappa dell’Italia. Era la stagione delle ampolle d’acqua ritualmente prelevate alle sorgenti del Monviso e dell’insurrezione contro il centralismo romano. Che il Po segnasse un confine, in quel momento, sembrava un dato di fatto indiscutibile, per quanto non sia mai stato chiaro dove la Padania finisse veramente: sulla sponda meridionale del fiume, senza se e senza ma, o da qualche parte laggiù nella Bassa, magari dove passa una di quelle linee invisibili (isoglosse, le chiamano i professoroni) lungo le quali le parole cambiano e le parlate perdono vigore? Se così fosse stato, la frontiera padana si sarebbe dovuta assestare grosso modo tra Rimini e La Spezia, che è come dire sul tracciato della vecchia Linea Gotica, che durante la Seconda Guerra mondiale separava il Sud liberato dal Nord occupato.
Ma questa è storia antica e la storia, lo abbiamo già detto, non è mai stata la prima preoccupazione della Lega, nonostante l’originaria profusione di carrocci, elmi e cimieri. Anche il passato della Lega, del resto, non si è mai sedimentato in storia, tant’è vero che l’accordo Salvini-Di Maio, dal quale è nato una decina di giorni fa il governo Conte, viene presentato nei termini di una novità assoluta, come se davvero i leghisti non avessero mai ricoperto posizioni di responsabilità nell’esecutivo nazionale (questa è semmai la condizione dei ministri del Movimento 5 Stelle, che a Palazzo Chigi e dintorni possono vantare la condizione dei debuttanti quasi perfetti). Insieme con l’armamentario neobarbarico degli anni Novanta, anche il fronte del Po si perde ormai nelle nebbie, quelle sì molto padane, di una memoria che dura ormai lo spazio di un tweet.
Oggi la parola d’ordine – anzi, l’hashtag di lotta e di governo – è #chiudiamoiporti, che è come dire: ribelliamoci alla geografia. Di nuovo, come se l’Italia non fosse la Penisola che è, come se non si protendesse nel Mediterraneo in quel modo, come se le coste non rappresentassero da sempre il tratto più esteso delle nostre frontiere. Ma il “da sempre” è di troppo, perché rimanda alla storia, di cui ormai ci stiamo sbarazzando. Teniamoci le frontiere e aggiungiamoci l’appellativo di “naturali”, già che ci siamo. Come se in natura esistessero le frontiere, appunto, e come se le coste, i porti, i fiumi stessi non fossero i luoghi dell’incontro e dello scambio. Anche commerciale, certo, ma qui ci vorrebbe di nuovo la storia, con la pedanteria delle sue lezioni, per ricordarci che sono stati i mercanti a fare l’Europa, spesso dando concretezza agli ideali di un umanesimo che altrimenti non sarebbe mai uscito dalla sua nobile dimensione erudita.
a per la storia non abbiamo più tempo, noi siamo gente spiccia, per la quale la geografia basta e avanza. A patto che descriva il mondo così come lo vorremmo noi, però, e purché non contraddica gli obiettivi che ci siamo dati. La carta del Mediterraneo, per esempio, non va considerata nella sua interezza, non si deve fare troppo caso a quello che sta in basso, verso sud, né alle terre che si profilano a Oriente e Occidente, dalle parti delle Colonne d’Ercole. Peccato che così facendo, una volta sbarcati a Malta, ci si dimentichi della Spagna. Ci si ferma alla Valletta, insomma, e a Valencia non si arriva più. Ne tenga conto, la Lega del 2018: nell’era dell’Aquarius anche la geografia, non meno della storia, può risultare fastidiosa. © RIPRODUZIONE RISERVATA