STORIE DI PRETI DI PERIFERIA/7. La frontiera di "padre Pato" per la dignità dei rarámuri
Lucia Capuzzigiovedì 20 agosto 2015
Le note di Chopin si mescolano al vento eterno della Sierra Tarahumara, in Messico. La ballata si diffonde inesorabile per le strade semideserte di Creel, paesino di 8mila abitanti scarsi, incastonato sulla Sierra Madre occidentale. Sembra un “miraggio acustico”. E, invece, seguendo la musica, si arriva al cuore del villaggio. Là c’è la chiesa di Nostra Signora di Lourdes. Fuori, rannicchiato tra la piazza e il marciapiede, un gruppo di bambini rarámuri – la principale etnia indigena della zona – fissa “l’altoparlante” come fosse lo schermo di un cinema. Da quell’aggeggio rudimentale, al tramonto, inizia a fluire la melodia. «Per accompagnare l’avanzare della notte. I rarámuri l’adorano. E anche io», afferma una voce squillante. Javier Ávila – barba bianca curata, fisico tonico, aria distinta – ha l’aspetto di un hidalgo spagnolo. «Niente di tutto ciò. Sono nato a Guadalajara oltre 70 anni fa. Ma appartengo alla Sierra», racconta ad Avvenire il gesuita che ha trascorso fra i canyon affilati della Tarahumara ormai quattro decenni. Aveva 33 anni quando, appena ordinato, la Compagnia lo inviò nel nord, fra i monti di Chihuahua, al confine con il Texas. Padre PatoFra i rarámuri: circa 100mila persone sparse in varie comunità su una superficie di 350mila chilometri quadrati. Una terra isolata ed estrema: le auto si incagliano nei sassi degli sterrati. Ogni minimo spostamento richiede ore in questo deserto di roccia, screpolato dal vento costante che ha scolpito il paesaggio in forme bizzarre: uomini, rane, condor. La siccità è ciclica e i terreni coltivabili scarseggiano. Una natura inclemente e, al contempo, meravigliosa rende la vita dei popoli della Tarahumara una lotta quotidiana. Eppure, padre Pato, come affettuosamente lo chiamano, non ha dubbi: «Venire qui è stata una delle quattro grazie della mia vita. Le altre tre? Essere entrato nella Compagnia, venire ordinato sacerdote e incaricato di creare la prima Commissione per i diritti umani dello Stato». L’organismo è nato 27 anni fa, con il sostegno dell’allora vescovo José Llaguno, per denunciare i continui abusi a cui erano e sono sottoposti i nativi. Segno che clima e altitudine sono solo alcuni dei problemi dei rarámuri. Da cinquecento anni, la Tarahumara è nel mirino degli stranieri, ansiosi di sfruttarne le immense risorse, a spese ovviamente degli abitanti. Prima sono arrivate le grandi aziende minerarie, attratte dal rame intrappolato nel sottosuolo. Poi, gli interessi si sono concentrati sull’“oro verde”, gli alberi, trasformati in legname pregiato. La deforestazione selvaggia ha deteriorato il suolo, rendendo ancor più difficile l’agricoltura. Questo spiega la tremenda carestia del 2012. Al momento, inoltre, le comunità sono impegnate nella lotta contro due mega progetti, fortemente sostenuti dal governo statale, per la costruzione sulle loro terre di un gasdotto e di un aeroporto vicino a Creel. Più degli imprenditori senza scrupoli e della corruzione politica, che consente a questi di accaparrarsi terreni indigeni, a preoccupare i rarámuri e chi li accompagna, ora, sono soprattutto i narcos. La Sierra è un corridoio strategico per portare la cocaina negli Stati Uniti. Per questo, negli ultimi anni, il cartello di Sinaloa ha ingaggiato una battaglia furibonda con i rivali di Juárez per la conquista della Tarahumara. I nativi si sono trovati in mezzo al “fuoco incrociato”. «La pressione dei narcos è forte. Che cosa vogliono dai rarámuri? Terra, prima di tutto, per seminare la marijuana, il suolo della Sierra la fa crescere abbondante e di alta qualità. E manodopera a bassissimo costo. Spesso reclutano con la forza gli indigeni per trasportare droga oltre il confine. O per piccoli lavoretti criminali», afferma padre Pato, indicando una voluminosa cartella appoggiata sulla scrivania. È il dossier delle denunce presentate dagli indigeni alla Commissione per i diritti umani diretta dal gesuita. In quasi 30 anni, il sacerdote ha assistito migliaia di vittime dei più atroci abusi. «Aiutarli è il modo in cui declino la mia “opzione preferenziale per i poveri”. È stata la gente a portarmi, poco a poco, sulla strada della protezione dei diritti umani. Subivano violazioni così enormi e non avevano nessuno a cui rivolgersi. Ho semplicemente risposto al loro grido di dolore», spiega. Una scelta rischiosa nel Messico della narcoviolenza, in cui la criminalità dilaga, spesso, con la complicità delle istituzioni. Negli ultimi due anni sono stati assassinati 32 attivisti per i diritti umani, in media più di uno al mese. «Non ho paura. Ho offerto la mia vita tanto tempo fa – aggiunge padre Pato –: ho imparato dai rarámuri a non arrendermi di fronte alle difficoltà. A resistere, con imperturbabile pazienza. Certo, ci sono stati dei momenti duri, come il massacro del 16 agosto 2008». Il primo della cosiddetta “narcoguerra”. Quel giorno, un gruppo di sicari del cartello di Juárez ha voluto “punire” in modo esemplare un trafficante ribelle: l’ha crivellato di colpi di fronte a casa, poi ha ucciso i passanti che si trovavano nella piazza di fronte. Adesso, nello stesso luogo, la statua di una donna con il braccio alzato e i figli aggrappati alle ginocchia, tiene viva la memoria dell’eccidio. «Ho sentito le raffiche mentre celebravo la Messa. Così, appena finito, ho preso l’auto e ho cercato di capire che cosa fosse accaduto. Svoltato l’angolo, ho visto i corpi per terra: erano 13 cadaveri, tra cui quello di un bimbo di quattro mesi», racconta il gesuita, primo e unico testimone della strage, dato che la polizia locale ha rifiutato di uscire dal commissariato per i successivi due giorni. È stato padre Pato a scattare le foto della carneficina, ad avvertire le autorità della vicina Cuauthémoc e a seppellire le vittime. «Non è stato facile ma anche io ho i miei “trucchi” per sopravvivere. Anche questi me li hanno insegnati i rarámuri – scherza il gesuita –. Corro sei chilometri tutte le mattine. Ma non riesco a tenere il ritmo dei nativi, instancabili maratoneti naturali». Proprio per questo, il giornalista Christopher McDougall ha voluto dedicare al popolo della Tarahumara il libro “Born to run”, “Nati per correre”. «E poi c’è la musica..». Padre Pato evita di raccontarlo, ma – come dimostrano i cd con la sua faccia in copertina esposti in vari negozi del Messico – è un noto compositore e concertista. In realtà, i rarámuri più che suonare, ballano. Con i passi cadenzati dei loro “piedi leggeri” – da cui deriva la parola rarámuri -– ricacciano nel sottosuolo “Rere Beteame Ru”, il diavolo. La danza è un elemento peculiare del cristianesimo della Tarahumara, trasmesso dai gesuiti e poi, dopo l’espulsione di questi ultimi nel 1767, elaborato in modo autoctono. Le principali celebrazioni includono il ballo: durante la Settimana Santa, in particolare, i rarámuri danzano dal Venerdì alla Domenica. Senza sosta. «Senza cedere mai. Per respingere il male nel suo abisso – conclude padre Pato –. Per far crescere la speranza». Lo fanno da secoli. E, a dispetto dei narcos, continuano a ballare.