L’uomo è indifeso di fronte ad eventi come il terremoto, che tre giorni fa è tornato a colpire Lazio, Marche e, in misura molto minore, Umbria e Abruzzo. Il terremoto è in effetti un’icona del male per la sua imprevedibilità, indomabilità, distruttività. Consegna l’essere umano al bisogno, alla precarietà, al dolore, quando non alla morte. Lo fa sentire abbandonato a se stesso. Gli fa rivolgere più o meno inconfessate domande a quel Cielo che non interviene. Il terremoto è un volto della natura matrigna, di questo mistero della forza opposta a Dio, e da lui solo conosciuta – il male appunto – nucleo centrale di ogni teologia, quello da cui tramite le parole insegnateci dal Cristo alla fine del Padrenostro chiediamo di essere liberati. Per i non credenti è un’evenienza e basta (a volte nascosta dietro il pietoso nome di 'fatalità', stadio intermedio tra l’umano e il divino, che in fondo non significa alcunché); evenienza a volte segnata da terrificanti contingenze, come quelle che in questi giorni stiamo apprendendo dai media: la bambina di 18 mesi, nata da una madre scampata al sisma aquilano del 2009, ritrovatasi a morire in un’altra zona terremotata; la ragazza che era andata in visita dai nonni prima di cominciare le scuole superiori, che non frequenterà mai; gli ospiti di un albergo mezzo vuoto durante l’anno, a fine estate qui attirati da una festa, il cinquantesimo dell’amatriciana; tante altre storie. Storie che ci sono state in passato – esattamente in queste zone il 14 gennaio del 1703, quando il tributo fu di migliaia di vite – e che si rimodellano sempre sugli stessi passi. Un mondo incomparabilmente diverso da allora, oggi avanzato, tecnologico, non così dominato dalla miseria esistenziale, si scopre del tutto vulnerabile. I sentimenti sono uguali. Le parole, perfino, si rifanno uguali, scavalcando un lessico arcaico come quello del 1703; ricollocandosi nel medesimo alveo, scavato dal dolore, il quale le rende
volitantia viva per ora virum – per citare un poeta romano – cioè che nel tempo «volano vive di bocca in bocca tra gli umani».Così è avvenuto in piazza San Pietro, nella stravolta udienza generale di mercoledì scorso, per bocca del Santo Padre, dopo essere state pronunciate dal sindaco di Amatrice. E’ raro, per intuibili ragioni, che un Papa riporti esternazioni fatte da chi rivesta una carica, istituzionale o amministrativa, in una nazione, ma qui è stato citato l’uomo, non il sindaco, come rappresentante di una collettività ferita. A poche ore da quella notte, il papa ha detto: «Sentire il Sindaco di Amatrice dire: 'Il paese non c’è più', e sapere che tra i morti ci sono anche bambini, mi commuove». Era successo anche tre secoli fa, quando un’identica frase venne scritta dal commissario inviato in quei luoghi terremotati dal viceré di Napoli. Il marchese Marco Garofalo della Rocca scrisse «la città – l’Aquila in questo caso, ma si riferiva al medesimo circondario del 2016, aquilano all’epoca – fu. Non è». E parole analoghe si leggono nei documenti pontifici del papa Clemente IX, che fu tra i primi a soccorrere quest’ovile. Leggendo le relazioni e i documenti compaiono gli stessi nomi di Amatrice, Accumoli, Arquata, Montereale: le aree-incudine del nemico di sempre, la forza sollevatasi dalle viscere della terra per scrollarla. Vi si colgono la preoccupazione e a tratti la commozione, non parole di circostanza, o prammatiche scritte da una segreteria: lo provano le straordinarie largizioni disposte al tempo e oggi le tante architetture, ecclesiastiche o civili, rase al suolo e poi grazie a quei fondi rialzate, con fabbriche, cioè cantieri, che si protrassero per decenni. Vi ricompare la stessa articolazione logicoverbale, col ricorso a grumi di straziate sillabe – «fu»; «non è»; «non c’è più» – che consegnano l’essere, di un borgo, al passato. Vi si legge l’ansia del soccorso, col disporre misure d’urgenza in fondo non tanto diverse da quelle odierne: destinazioni di somme, sgravi fiscali, baracche per ospitare i senza casa; forni all’aperto – oggi mense – per dar loro da mangiare. Cambiano i tempi, ma la creatura umana, la sua condizione, la sua fragilità no. Ecco perchè le parole ch’esse lo inducono a pensare, e poi a pronunciare, sono sempre le stesse.