Diplomazia: le lezioni afghana e libica. Ma a vincere è la forza gentile
In un mondo sempre meno governato dalle regole e sempre più influenzato dai rapporti di forza, la diplomazia tende a essere vista come una risorsa debole, come un’arma spuntata. Uno strumento buono per i tempi di pace, inutile se non dannoso in tempi conflittuali. Questo è l’argomento centrale (e fuorviante) di tanti corsi di geopolitica e di studi strategici. Il tema della vacuità della diplomazia è stato posto in diverse occasioni: basti pensare all’Afghanistan nel 2001, all’Iraq nel 2003, alla Libia nel 2011, alla Siria nel 2013.
Negli ambienti improntati alla cultura geo-strategica viene spesso riproposto il cosiddetto 'stereotipo di Monaco', e cioè la perniciosa arrendevolezza a ricercare il compromesso dinanzi ad autocrati, potenti malintenzionati, gruppi armati, come fecero, Gran Bretagna, Francia e Italia dinanzi alle rivendicazioni di Hitler su parte della Cecoslovacchia nel 1938. Secondo questa narrazione (incompleta e falsificabile da contro-argomenti) il negoziato in questi casi è controproducente e i nemici se ne approfittano per perseguire indisturbati i propri fini di potere o conquista. Con un termine inglese difficilmente traducibile nella sua pregnanza, si parla di appeasement, accomodamento.
Qualcuno ha tentato di gettare un ponte tra diplomazia e forza, inventando la cosiddetta «diplomazia coercitiva»: a ben guardare, un ossimoro. Ugualmente incoerente risulta l’atteggiamento degli Stati che negoziano con gli avversari o nemici affrettandosi però a precisare che «tutte le opzioni restano sul tavolo», il che equivale a dialogare con una pistola carica metaforicamente appoggiata su quello stesso tavolo.
Ma guardiamo da vicino le vicende afghana e libica. Dopo svariati anni di 'guerra al terrorismo', per l’Afghanistan, già a metà degli anni 2000, si levò qualche voce dubbiosa sulla possibilità di una vittoria militare contro un nemico sfuggente, in una guerra definita asimmetrica. Gli analisti sapevano che al-Qaeda era cosa in buona parte cosa distinta dai taleban. Quanti osavano accennare timidamente alla prospettiva di un negoziato con i taleban venivano considerati come degli sprovveduti, se non degli irresponsabili. Oggi, dopo venti lunghi anni, sono gli Stati Uniti d’America ad aver concluso un accordo con i taleban e a decidere di ritirarsi dal Paese. Il negoziato tanto vituperato è stato condotto dalla maggiore potenza militare del mondo. Giusto così, un esito da salutare con rispetto.
Ma era chiaro sin dall’inizio per chi conosce un minimo di storia della regione che l’Afghanistan è da sempre «il cimitero degli imperi» e che senza un accordo politico ragionevole e bilanciato che includesse anche i taleban (non i terroristi, ovviamente) non vi sarebbe mai stata stabilità. Ci si è arrivati, dopo due decenni di guerra, migliaia di caduti in divisa e molti più morti civili, 'vittime collaterali'.
Quando la Turchia decise all’inizio del 2020 di intervenire militarmente in Tripolitania, anche in relazione alla presenza militare russa in Cirenaica, ci fu chi chiese a gran voce un analogo 'intervento' italiano, quasi che non avessimo una Costituzione che impedisce di ricorrere alla guerra come strumento di risoluzione di con- troversie internazionali, al di fuori di casi di operazioni decise da organismi multilaterali di cui il Paese fa parte e che consistono in buona misura in iniziative di mantenimento della pace dopo la conclusione delle ostilità. In apparenza, e nel brevissimo periodo, le presenze militari in patria altrui sembrano manifestazioni di potenza, ma sono in realtà posizioni molto fragili e alla lunga insostenibili, sia per i costi che implicano (umani, finanziari, reputazionali) sia per quelli politici e sociali (l’orgoglio nazionale dei Paesi che le subiscono, il rigetto sociale delle truppe straniere).
Lo abbiamo visto in Iraq, dove, dopo la conclamata 'vittoria' della coalizione del 2003, iniziò la fase peggiore del conflitto, con la guerra civile e il terrorismo endemico, fino all’avvento del cosiddetto Stato islamico, in parte figlio proprio dell’opzione militare che condusse alla destabilizzazione dell’Iraq e dell’intera regione (inclusa la Siria). Quando le condizioni cambiano, e quando le armi tacciono, rientra in scena chi ha privilegiato sin dall’inizio la soluzione politica rispetto a quella militare, chi ha scelto la diplomazia rispetto alla forza. La diplomazia stessa, in questo caso, diventa una forza: ma, per parafrasare il titolo di un bel libro di Tommaso Padoa-Schioppa ('Europa, forza gentile') la diplomazia è una forza gentile, senza che ciò la renda inefficace, tutt’altro. Questo non è pacifismo sterile, è lungimiranza politica. Ecco perché oggi l’Italia, rispetto alla crisi libica, ha una credibilità oggettiva, che le deriva proprio dall’aver scelto la pista diplomatica rispetto alle illusorie scorciatoie militari.
Paquale Ferrara Ambasciatore, docente di Diplomazia e Negoziato alla Luiss