Caso Cucchi e altri orrori. La forza dello Stato non è mai nella tortura
La svolta clamorosa e tardiva del caso Cucchi riporta alla ribalta il dibattito sull’introduzione del reato di tortura, che ancora fa storcere il naso ad ampi settori del nuovo Parlamento.
In base alla legge 110 dello scorso anno «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Anche se, nel tragico caso del ragazzo romano, a ben vedere, si è trattato di qualcosa di persino peggiore della tortura: in base alla confessione del carabiniere Francesco Tedesco i comportamenti «inumani e degradanti» sarebbero ricollegabili a un caso di pestaggio fine a sé stesso, senza neanche la finalità perversa (che la tortura evoca) di estorcere attraverso la violenza una qualche collaborazione investigativa.
Ma più ancora delle gravissime responsabilità, che emergerebbero a carico degli autori materiali, sconcerta il clima di copertura, i verbali sbianchettati, le solenni dichiarazioni di totale estraneità dell’Arma via via smentite dalla realtà venuta alla luce. Realtà assunta a partire dal 2015 nella sua amara evidenza, con crescente fermezza, dai vertici dei Carabinieri. La violenza è sempre violenza e va contrastata. Ma quando a farne uso è un tutore della legge in divisa, dovrebbe scattare immediatamente la tendenza a un’intransigenza anche maggiore. Perché quando uno Stato democratico si degrada a usare le stesse armi del nemico (ossia la violenza e l’illegalità) compie un’operazione pericolosissima, in grado di ridare forza a una retorica anti-Stato dura a morire e che cova sempre sotto la cenere. Avrebbe dovuto insegnarlo la lezione venuta dalla lotta a un terrorismo duro a morire dopo gli anni di piombo, quando un manipolo di eversori, fuori contesto, nel pieno del 'riflusso' e del cosiddetto edonismo reaganiano, continuò a coltivare il suo folle disegno alimentando odio contro lo Stato proprio nel racconto delle violenze (poi accertate) poste in essere, soprattutto durante il rapimento del generale americano Dozier. Violenze tollerate anche in ragione del grave attacco portato al bene supremo della sicurezza dello Stato.
Ma l’esperienza dimostra che il fenomeno è stato debellato, in realtà, con gli strumenti costituzionali e democratici della rieducazione del condannato coadiuvati spesso dalla pietas cristiana di cappellani e operatori carcerari. In stretta sintonia con le istituzioni e una coraggiosa legislazione varata a metà degli anni 80 del Novecento. Quella pietas - cristiana e laica al tempo stesso dimostrata da Giovanni Bachelet nel celebre intervento di 'perdono' per i carnefici al funerale del padre Vittorio, ucciso dalle Br. Semi di riconciliazione che hanno dato frutto nel tempo. Ma gli errori, specie quelli non condannati come tali, possono ripetersi.
E così a Genova nel 2001, al G8, abbiamo assistito increduli a una «macelleria messicana» che non avremmo mai pensato possibile. Ma, ancora una volta, abbiamo potuto riscontrare quanto il rispetto dei valori della Costituzione, e dei princìpi di umanità in essa inseriti, si siano rivelati 'arma' poderosa per combattere i violenti e i loro attacchi alle istituzioni. La 'lezione' di Genova ha portato negli ultimi 15 anni - puntando tutto sulla prevenzione e, fin quando possibile, sul dialogo - a una gestione eccellente dell’ordine pubblico in eventi di grande rilevanza internazionale (come, di recente, il G7 di Taormina, e i 60 anni dei Trattati di Roma) senza nemmeno un incidente. Un modello che ha certo aiutato anche a far sì che il nostro Paese sia stato al riparo, unico dei grandi Paesi occidentali, da episodi di terrorismo. Tuttavia la minaccia dell’anti-Stato non è mai battuta per sempre, capace com'è di autoalimentarsi con sempre nuove parole d’ordine.
A quasi 30 anni dalla caduta del Muro tornano incredibilmente a manifestarsi segnali che sembrano ricacciarci indietro di quasi mezzo secolo: stelle a 5 punte nei pressi di abitazioni delle vittime del terrorismo rosso a Milano, lapidi deturpate a Bari, come era avvenuto qualche mese fa in via Fani, a ridosso del quarantennale. E ancora, volantini inneggianti ai brigatisti in carcere a Sesto, la Stalingrado d’Italia di un tempo, e poi anche a viale Monza, a Milano. Ma basta andare su Facebook sulla pagina 'aperta' di qualche ex brigatista che ha approfittato dei 40 anni dal caso Moro per ironizzare incredibilmente sulle vittime, per accorgerci che c’è come una voglia di 'combattenti e reduci' di ritrovarsi, come in attesa che tornino le condizioni per 'agire'.
E all'estrema destra i segnali non sono meno inquietanti. Di fronte a tutto ciò lo Stato non ha che da continuare sulla strada intrapresa. Una strada fatta di prevenzione, fermezza e tolleranza insieme, facendo uso del giusto discernimento. Fermezza anche in casa propria. Per evitare che la violenza perpetrata anche da uomini in divisa alimenti con un certo tipo di narrazione interessata, la nostalgia dura a morire, e un po’ patologica, dei 'cattivi maestri'. Pronti a soffiare sul fuoco di un Paese in grande difficoltà.