Da qualche tempo, con una vistosa accelerazione più recente, vicende piccole e grandi s’inseguono compulsivamente sulla scena politica, a livello nazionale e internazionale. Ogni singolo atto, o strappo, ha una minuscola storia, ma non sempre si riesce a trovare un filo conduttore. Avvertiamo istintivamente che stiamo tornando indietro, stiamo regredendo su valori e princìpi di civiltà, che abbiamo conquistato a fatica tutti insieme, e che ci donavano dignità e speranza. Intuiamo che stiamo mettendo in questione e rischiamo di perdere parte delle nostre conquiste e identità, che si sta lacerando non solo in Italia un tessuto etico e civile prezioso e consolidato, riusciamo persino a sporcare eventi e risultati che dovrebbero riempirci di soddisfazione. Se guardiamo al fondo di incertezze e sensazioni, scorgiamo una realtà più seria dei singoli episodi: un brutto tentativo col quale si cerca di
rimpicciolire la storia,
quella nostra e di altri Paesi, di innescare un ripiegamento della vita pubblica e collettiva verso particolarismi e corporativismi, con l’offuscamento di princìpi universalistici che prima erano l’essenza dell’evoluzione dell’uomo, col ritorno a comportamenti, scelte e linguaggi aggressivi, intrisi di endemica violenza.
Qualcosa di triste unisce tante cose che viviamo nella quotidianità, e ci fa sentire al centro di uno scontro più grande tra sentimenti e princìpi di universalità, quelli propri dell’antico ius gentium, tra conquiste generali e regressi statocratici ed egoismi sciagurati, con la perdita di riferimenti ideali e collettivi.
Quasi senza accorgercene, ci abituiamo alla prospettiva di una sorta di dissolvenza delle istituzioni internazionali che nel secondo Novecento hanno rifondato il mondo, inaugurato un’epoca di maggiore giustizia per tutti i popoli. Assistiamo, di qua e di là dell’Atlantico, a diktat unilaterali su grandi questioni planetarie, si stracciano o impongono trattati commerciali, si proclama la primazìa di una Nazione o dell’altra, si costruiscono muri per dividere Paesi, si chiudono gli spazi del pianeta, senza ascoltare nessuno. E da un giorno all’altro ci ritroviamo a leggere che l’accordo sul clima non è più attuale per questo o quel Governo o che s’è disdetto il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari che reggeva l’equilibrio del mondo da decenni. Intanto, constatiamo che l’Onu s’è fatto quasi impotente di fronte a guerre tra Paesi, a bande armate che colpiscono minoranze etniche o religiose, senza che intervenga, come avveniva un tempo, alcuna forza sovranazionale in difesa degli inermi. Anche da noi si sente dire a volte, e con leggerezza, che dobbiamo dire 'no' all’Onu, alle sue regole, come se potessimo farne a meno, separarcene, mentre dovremmo migliorarne qualità e interventi. Sentiamo svillaneggiare le istituzioni europee, e accantonare l’impegno per la loro riforma, il loro rilancio. La polemica, che – in Italia e altrove, con qualche sfrontatezza – viene avviata contro l’uno o l’altro Paese, riporta clima e linguaggi pubblici a quelli pro- pri dell’Ottocento, come se il processo di ricomposizione dei popoli e delle nazioni europee, costruito dal dopoguerra a oggi, meriti di naufragare. È tutto un tornare indietro, un regresso continuo, addirittura esibito da chi vuole essere 'sovrano in casa sua'.
L’orizzonte culturale e politico ha già perso i grandi ideali della modernità, come il sogno della «pace perpetua» che Immanuel Kant individuava tra i fini dell’umanità, mentre noi archiviamo l’opera di statisti – da Churchill a Schumann, da Adenauer a De Gasperi – che nel Novecento hanno scelto di salvare l’Occidente e hanno voluto tenacemente ricostruire la democrazia in Europa. S’è come persa parte della nostra memoria più grande. In realtà, le asprezze e i conflitti tra Stati e Nazioni che alcuni vogliono riattivare sono tasselli di una più cupa ambizione che traspare dietro l’incalzare di forze politiche che fanno nel rifiuto dell’altro il focus della propria identità. L’obiettivo vero è quello di colpire il più grande ideale delle ultime generazioni, con la ricerca di una storia comune europea che si unisce ad altri processi di ricomposizione planetaria, e di contestare a prescindere istituzioni sovrannazionali come l’Onu, che dovrebbero essere simboli d’unificazione dell’umanità. Non si vuole la difesa dei diritti e degli interessi di una nazione, si nega la composizione politica di questi interessi, si rifiuta il principio stesso dello 'stare insieme', che ha unito popoli e Paesi per tanto tempo ostili, o nemici, di quell’animusche spinge a costruire realtà più grandi e stabili. In questo clima si può cancellare tutto, anche l’impegno assunto nel 1949 dalle decine e decine di Stati raccolti nel Consiglio d’Europa: «Conseguire un’unione più stretta (...) per tutelare e realizzare gli ideali e i princìpi che sono loro comune patrimonio e favorire il loro progresso economico e politico». Ci sentiamo invece chiusi in una quotidianità che offre un’Europa spezzettata, alle prese con la vicenda della Brexit che sta umiliando l’antico gigante inglese, o rivive l’incubo di una violenza, oggi soprattutto antiebraica e antislamica, mai veramente sconfitta.
Questa china isolazionista trova poi riscontro nell’abitudine, ormai insopportabile, di inveire contro tutto ciò che è unificante e globalizzante, respingere e oltraggiare uomini e donne che si spostano da un continente, o Paese, all’altro, che invece di essere considerati immigrati, sono additati come pericolosi, da evitare o scacciare il prima possibile. Quando ci si chiude nel proprio spazio, si perde il senso della realtà, si dimentica che questi esseri umani sono vittime di un dramma epocale e planetario che divide gli uomini tra chi è tutelato e chi non sa neanche dove andare. Eppure il tema dell’immigrazione è tra quelli che di più dovrebbero impe- gnare l’orizzonte politico, per realizzare una svolta radicale rispetto ai diritti umani del XX secolo. L’immigrazione chiede un supplemento di universalità per quei diritti che non possono avere i confini del passato: essi spettano a tutti, uomini e donne d’ogni religione o cultura, ovunque nascano e ovunque vadano. In questa accezione, molte cose vanno riviste e rilette, a cominciare dalla cittadinanza, che non è un bene esclusivo di un territorio o di uno Stato, così come non esistono beni essenziali che appartengano solo ad alcuni con esclusione degli altri. Un altro scarto divide sovranismo e universalismo, perché il primo, invece di dare certezze e sicurezza, come alcuni teorici sbandierano di continuo, rendono il mondo sempre più precario. Un senso d’incertezza si diffonde nella vita politica, e in quella quotidiana, ci si accorge che nulla mai si conclude davvero, niente si rafforza, ci sentiamo più esposti a tanti rischi. In un’immagine tra le più suggestive del suo magistero, papa Francesco invita a guardare alla realtà «con gli occhi dei piccoli», perché i bambini a volte sembrano non poter interloquire con gli altri, ma guardano, vedono, giudicano. Gli adulti, invece, non sanno guardare con la lente dell’innocenza, della verità: «Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri». Gli uomini credono che l’indifferenza ci renda immuni da colpe, mentre l’indifferenza «ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio. Ci siamo abituati alla sofferenza del-l’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!».
Alla voce del Papa, oggi la più universale che esista, si risponde che non è realista, che si fonda, essa, su un’illusione. Eppure le parole più realiste vengono proprio da Francesco, perché, ricorda, «i flussi migratori contemporanei costituiscono il più vasto movimento di persone, se non di popoli, di tutti i tempi». E aggiunge che «il diritto di ogni essere umano di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse» deve «nello stesso tempo garantire la possibilità di integrazione dei migranti nei ispettivi 'tessuti sociali'». Ciò perché «migrare è un diritto, ma un diritto molto regolato » e «quando un migrante non è integrato, si ghettizza, entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in rapporto con un’altra cultura, entra in conflitto, e questo è pericoloso». Spiega ancora Francesco: «accogliere, accompagnare, sistemare, integrare» è giusto e necessario, e «ogni Paese deve fare questo con la virtù propria del governo, con la prudenza: ogni Paese deve accogliere quanto può, quanti ne può integrare». Ma quali sovranisti, ormai da tempo al potere in vari Paesi, hanno risposto realisticamente con l’indicazione di un progetto, un solo progetto internazionale, che non sia solo quello di alzare muri e cacciare via gli intrusi? Essi sanno solo sfornare statistiche di chi non è più entrato e di chi è stato espulso da un territorio, e pensano d’aver risolto la questione, perché vogliono un mondo piccolo, dove gli uni scacciano gli altri, dimostrando così di non avere alcuna strategia né cuore, né intelligenza o saggezza.
Certo, c’è un’altra storia tutta diversa, in cui tutto si mischia, e ci dona a volte qualche raggio di luce. Stati e Nazioni continuano a commerciare in modo più o meno caotico. All’improvviso una ragazzina come Greta chiama a raccolta i giovani e giovanissimi di tutto il mondo per difendere il pianeta, e milioni di persone lottano e s’impegnano contro il razzismo. Papa Francesco va su e giù per il pianeta per stringere accordi interreligiosi, o apre una porta sulla Cina e sul continente asiatico, invita gli uomini alla speranza. È la storia dei nostri sogni che ogni tanto ci assicurano e ci spronano, anche se le leve del potere e del governo sono oggi in mano ad altri, agli artefici di una storia che si fa piccola piccola, non risponde più ai bisogni dell’umanità. Però, una certezza possiamo coltivarla, perché i sogni e gli ideali sono più grandi delle strettoie dell’egoismo e con il tempo hanno sempre prevalso e guidato la storia universale degli uomini.