Sinodo dell'Amazzonia e non solo. La fedeltà dinamica a Cristo di un magistero scomodo
Non possiamo ignorare il fatto che l’attuale contesto culturale ed ecclesiale viva in una continua tensione, che spesso diventa contrapposizione, tra quanti interpretano la fede e il rapporto col magistero ecclesiale cattolico, ritenendo che quest’ultimo debba offrire certezze e proposte rassicuranti e fondate dottrinalmente e quanti si sentono stimolati ad attivare dei processi e quindi a mettersi in movimento a partire dagli insegnamenti del Vaticano II e dall’attuale Vescovo di Roma che cerca di attuarli. E ciò a prescindere dalle contrapposizioni ideologiche e di parte. In fondo, il cristianesimo occidentale ha sempre vissuto questa polarità strutturale fra il dinamismo e la fedeltà: la Chiesa di Pietro, la roccia, il dogma, la stabilità, e quella di Paolo, la missione, il viaggio, l’apertura all’alterità. Il difficile, ma inevitabile equilibrio, che condurrebbe a una fedeltà dinamica, è un’urgenza del nostro oggi. La terza Chiesa sarà quella del futuro (indicata da Friedrich Schelling come Chiesa di Giovanni), una comunità capace, nell’esperienza mistica, di far coincidere gli opposti (Niccolò Cusano) e di vivere ed esprimere la tensione, senza opposizione.
Nel nostro contesto occidentale ed europeo sta irrompendo l’Amazzonia, al cui Sinodo ci stiamo preparando. Perché non sia un’occasione per riproporre forme deprecabili di proselitismo e di colonialismo risulta decisivo il richiamo dell’Instrumentum laboris al necessario passaggio da una «pastorale della visita» a una «pastorale della presenza». Senza cedere al canto di sirene rivoluzionarie, per esempio nel campo della ministerialità, il documento invita a inventare forme di presenza, che tengano conto della ricchezza di un contesto insieme tradizionale e variegato, in vista di un’autentica evangelizzazione. Ma questo appello non può non riguardare anche l’Occidente e l’Europa, in modo che il metodo e le decisioni, che attendiamo dal prossimo Sinodo, non vengano pensate come proposte che riguardano un mondo lontano e per noi inadeguate o fuori luogo. Basti pensare alla necessità di «valorizzare il protagonismo dei laici e delle laiche cristiani», come «soggetti di una Chiesa in uscita».
Quando Søren Kierkegaard descriveva gli stadi dell’esistenza cristiana, disegnando mirabilmente le figure della dinamicità del don Giovanni, della stabilità del funzionario (o del marito) e della fedeltà dinamica di Abramo, diceva qualcosa che non possiamo ignorare. Non possiamo esimerci dal tentare di comprendere il disorientamento di chi si sente minacciato, ma nemmeno possiamo cedere all’immobilismo e alla staticità delle strutture e delle modalità dell’evangelizzazione. Acquisire e rispondere a questo magistero scomodo, proprio dell’ultimo Concilio e di questo Papa, non ci sradica, ma ci radica ulteriormente in una fede in cui non siamo noi a portare la radice, ma è la radice che porta noi (cfr. Rm 11,18).
Se c’è chi ritiene che papa Francesco, quando ha affermato che Maria non è nata santa ma lo è diventata (auguri natalizi del 2018 ai dipendenti della Santa Sede), di fatto abbia negato il dogma dell’Immacolata, non ha compreso che si tratta di una verità di fede che ci mette in cammino e ci responsabilizza, piuttosto che consegnarci a una patinata iconografia, statica e fissata una volta per tutte. Maria ha vissuto una fedeltà dinamica, fondata sul suo 'sì' libero e decisivo alla parola del Signore, così la Chiesa vincerà il nemico non perché si arroccherà su posizioni di difesa ma perché saprà farsi portare lontano dalla sua radice, tanto più radicale quanto più dinamica.
Teologo, Pontificia Università Lateranense