Opinioni

La "differenza italiana". La famiglia che tiene e ciò che di essa va tenuto

Francesco D'€™Agostino venerdì 9 ottobre 2015
Che l’Italia appaia, agli occhi di quasi tutti i nostri partner europei, come un Paese 'familistico' è indubbio: infatti non solo in Italia la famiglia continua a 'tenere' (anche se la costante diminuzione dei matrimoni che si verifica ormai da diversi anni costituisce un segnale che non può essere trascurato), ma 'tengono' soprattutto alcuni indicatori sociali rilevanti, che ci differenziano soprattutto dai Paesi dell’Europa non mediterranea.  Citiamone alcuni. In primo luogo la solidarietà che deriva dalla forza oggettiva che gli italiani attribuiscono ai vincoli di parentela, che rende nel nostro Paese la famiglia la prima agenzia di collocamento per i giovani in cerca di lavoro (con tutte le deformazioni del caso, che conosciamo benissimo e per le quali si è inventato il termine, sgradevole ma efficace, di 'parentopoli'). In secondo luogo la coabitazione prolungata (e spesso economicamente inevitabile) tra figli ormai più che adulti e genitori, che produce un gravissimo ritardo nella formazione di nuove famiglie e un oggettivo disincentivo a mettere al mondo figli. In terzo luogo il diritto di famiglia italiano, che 'scarica' sui membri della famiglia doveri di assistenza che – ad avviso di alcuni – dovrebbero essere invece scaricati sullo Stato.  Infine, e questo forse è il punto più delicato, il radicarsi nella famiglia di una peculiarissima divisione del lavoro sociale, basata sul 'genere', quella per la quale spetta di fatto alle donne e a loro soltanto la presa in carico dei soggetti 'deboli': i figli, i malati, gli anziani (con l’inevitabile risultato di impedire a molte donne l’accesso al mercato del lavoro). Secondo molti studiosi di politiche sociali, l’Italia dovrebbe avere il coraggio di scrollarsi di dosso queste vere e proprie forme di handicap, che, oltre a vincolarla da un punto di vista economico, produrrebbero vere e proprie forme di ingiustizia e si tradurrebbero in violazioni della parità uomo/donna e quindi di diritti umani fondamentali.  Insomma, bisognerebbe dare inizio ad una vera e propria guerra di liberazione: bisognerebbe liberare la famiglia dai condizionamenti sopra indicati o, ancor più radicalmente, liberare gli individui (e soprattutto le donne!) dalla famiglia.Quanto c’è di nuovo in queste osservazioni? Poco: è da più di un secolo e mezzo (e forse da due secoli) che la famiglia è nel mirino di coloro che la vedono come luogo di repressione, sociale e individuale: gran parte della letteratura della fine dell’Ottocento e del Novecento è incentrata su questi problemi.  Quanto c’è di socialmente vero in queste osservazioni? Molto, davvero molto: è impossibile negarlo, soprattutto da quando raffinate indagini statistiche e sociali hanno corroborato quelle che in Ibsen o in Gide (per fare solo due esempi) erano solo geniali intuizioni. La questione essenziale però è un’altra: quanto c’è di umanamente vero in queste osservazioni? Poco, davvero poco.  È questo il punto su cui non si riflette abbastanza. Infatti, esasperando una lettura individualistica e non relazionale dell’uomo, esse trascurano del tutto la dimensione antropologica dei vincoli familiari e giungono frettolosamente a pensare che ad essa si possa rinunciare o che comunque sia doveroso allentarne i vincoli costituitivi. Ma come allentarli, se è proprio dal fatto che l’uomo è un animale familiare che dipende l’identità di ciascuno di noi?  Basterà assumere come esempio quello delle tre funzioni sociali essenziali che malgrado tutto gravano ancora in massima parte sulla famiglia e cioè l’educazione dei figli, l’assistenza ai malati, la cura degli anziani. È indubbio il fatto che i loro oneri gravano quasi esclusivamente sulle donne e che sia un dovere di giustizia ripartirle in modo equilibrato tra tutti i componenti della famiglia; resta però il fatto che è illusorio economicamente, ma ancor più disumanizzante antropologicamente, il solo pensare che queste funzioni possano essere in linea di principio fatte gravare sullo Stato. E questo sia perché nessuno Stato, nemmeno il più ricco, avrà mai le risorse economiche necessarie per farsene carico, sia e soprattutto perché affidare allo Stato queste funzioni significa inevitabilmente burocratizzarle e quindi depersonalizzarle. Solo la famiglia può educare le nuove generazioni aiutandole a interiorizzare valori etici e sociali; lo Stato (anche con le migliori intenzioni) può solo indottrinarle.  Analogamente è indubbio che l’ospedale o le case di riposo, ben più della famiglia, possono garantire ai pazienti o agli anziani terapie e trattamenti specialistici ottimali, ma nessun ospedale e nessuna casa di riposo potranno mai garantire ai propri assistiti quelle forme di cura, calda e personalizzata, di cui essi hanno un assoluto bisogno.  Difendere la famiglia non significa, quindi, operare per mantenere intatte le distorsioni create dalla storia e ancor più dalla cattiva volontà degli uomini, ma operare con intelligenza per distinguere nelle relazioni familiari ciò che è contingente (che va senza timidezze modificato) e ciò che è strutturale (che va invece accuratamente preservato). Un compito difficile, ma assolutamente necessario.