Finita tutela Ue, resta il dramma sociale. La dura lezione greca (Atene batte Ankara)
Non c’è niente da festeggiare (o forse sì). La fine della crisi, certo, l’addio alla museruola della Troika, la Grecia che riprende a navigare libera nel mare insidioso dei mercati. Ma anche la Grecia che dal 2007 ha perduto un quarto del suo prodotto interno lordo, che lamenta una disoccupazione del 20%, che ha visto limare le pensioni fino a un settimo del loro ammontare, la Grecia in cui un cittadino su cinque è al di sotto della soglia di povertà e metà delle famiglie vive grazie all’assegno previdenziale di uno dei suoi membri e dove da anni si lamentano denutrizione e carenze gravi nell’assistenza alla prima infanzia e drammatiche carenze di medicinali di prima necessità negli ospedali.
Niente da festeggiare (o forse sì), perché quei 273 miliardi che Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea hanno fatto sgocciolare con calcolata parsimonia nelle casse elleniche non sono per nulla aiuti, ma prestiti. E i prestiti vanno rimborsati (e in buona misura sono serviti a salvare le banche francesi e tedesche, che in pancia avevano una novantina di miliardi in bond ellenici). Bontà sua, la Troika ha congelato fino al 2032 il pagamento degli interessi, lasciando qualche decina di miliardi nelle casse di Atene per le evenienze ordinarie. Di buono c’è che l’economia ha ripreso a tirare – con timidezza, ma rispetto all’Italia con un vigore da noi ormai sconosciuto – doppiando il 2%, l’export cresce e il turismo fa di nuovo boom.
Niente da festeggiare (o forse sì), perché il laccio dell’austerity dovrà giocoforza continuare anche nei prossimi mesi e durerà almeno fino alle elezioni europee e a quelle politiche del 2019, dove l’opposizione di Nea Demokratia è in forte vantaggio su Syriza, che finirà con lo scontare – è fisiologico, ogni volta che un partito di governo impone sacrifici – la politica di sottomissione a Bruxelles iniziata nel luglio del 2015 dopo la capitolazione di Tsipras all’indomani del referendum contro il memorandum e la defenestrazione del ministro Varoufakis. Ma è tempo di spiegare quel 'forse sì', messo finora fra parentesi.
Un’Europa matrigna e senza cuore – così, non senza torto, è apparsa alle schiere di senza casa, di esodati, di pubblici amministratori che hanno perduto dalla sera alla mattina il proprio posto di lavoro – ha punito la Grecia che nel 2001 aveva truccato i conti (peraltro certificati da Goldman Sachs, che si era volonterosamente prestata alla bisogna: pecunia non olet) per poter entrare nell’euro, attuando una indiscutibile macelleria sociale. Qualcuno ha detto che si è trattato di un provvedimento volto a mettere in guardia (e soprattutto a spaventare) le nazioni dalle discipline di bilancio troppo allegre. Vista con il senno di poi (e con la imprevista vittoria della Brexit, nonché con le turbolenze antieuropeiste che ribollono in varie contrade dell’Unione), la Strafexpedition voluta principalmente dalla Germania non pare aver raggiunto il proprio scopo.
Ma se volgiamo lo sguardo a est, al vicino di casa della Grecia, a quella Turchia che per quattrocento anni ha dominato sulla culla antica della cultura europea e che oggi annaspa in una crisi valutaria che è soprattutto crisi diplomatica, crisi di strategie, crisi di credibilità internazionale, vien da dire che a ankara sia mancato ciò che per Atene è stato il carnefice e insieme il protettore, cioè l’Europa stessa.
Cosa che l’accorto e spregiudicato Alexis Tsipras (ex enfant prodige comunista) aveva capito fin dall’inizio, riparandosi – costasse pure una cura di lacrime e sangue – dietro lo scudo dell’euro, che mai avrebbe abbandonato in favore di una dracma anacronistica e destinata a provocare un naufragio sociale di ben più vaste proporzioni. Erdogan invece – anche se la responsabilità non è tutta sua – un’Europa a coprirgli le spalle non ce l’ha.
O per essere schietti, non ce l’ha più. E non saranno i miliardi del Qatar giunti in soccorso della lira turca né le intese con la Russia a tirarlo fuori dai guai. Lui davvero non ha niente da festeggiare. Atene invece, se pure con quel suo sardánios, il riso sardonico che Omero dipinge sul volto di Odisseo di fronte all’arroganza dei Proci, oggi finalmente se lo può permettere.