Problemi comuni e politica vecchia. La direzione è da aggiustare
Il cambiamento climatico e i fenomeni migratori sono due grandi sfide ormai stabilmente ai primi posti dell’agenda politica del nostro tempo. Si tratta di questioni importanti che tuttavia gli assetti istituzionali di cui disponiamo faticano a governare a causa della loro evidente inadeguatezza. Da un lato, gli Stati nazionali, pensati su base territoriale (e su questa schiacciati), non possono risolvere da soli questioni che hanno una dimensione spaziale che li supera.
Dall’altro, l’infrastruttura internazionale – a cominciare dall’Onu, per passare da Fmi, Banca Mondiale e Wto – che riflette equilibri di fasi storiche ormai superate e non riesce a catalizzare gli interessi divergenti dei vari attori economici e politici rispetto ai grandi problemi globali. Una impasse destinata ad aggravarsi, tenuto conto che le possibili soluzioni passano da complessi processi negoziali che per definizione hanno tempi ed esiti incerti.
Come si è potuto constatare nelle ultime settimane con le fatiche delle ennesime Cop sul clima (la ventisettesima, tenutasi al Cairo) e sulla biodiversità (la quindicesima, in corso a Kunming). O con le tensioni che continuano a scuotere l’Europa in tema di arrivi via mare e via terra di richiedenti asilo. In questa situazione – che ragionevolmente è destinata a durare ancora a lungo – questioni globali come quelle che abbiamo nominato (e non sono certo le uniche) continueranno a incidere sugli umori dell’opinione pubblica.
Contribuendo a determinare gli orientamenti politici e più in generale il clima sociale dei prossimi anni. Il tema del cambiamento climatico è rimasto nel retroscena per molto tempo, nonostante che già negli anni 70 del Novecento si sia cominciato a capirlo. Ancora oggi, ci sono “irriducibili” che negano il nesso tra modello di sviluppo e aumento delle temperature. Tuttavia, nonostante il sostegno crescente attorno all’idea di sostenibilità, i cambiamenti necessari stentato a essere implementati.
Cambiare gli stili di vita è un processo lungo e costoso. L’inerzia nasce dalla fatica che il nostro cervello deve sopportare nell’assumere un onere attuale e certo rispetto a uno proiettato in un futuro più o meno remoto. Come i fumatori incalliti – non è mai quell’ultima sigaretta che può provocare il tumore –, così le società contemporanee sottostimano sistematicamente i danni futuri rispetto ai sacrifici immediati. Senza contare che le posizioni tendono subito a polarizzarsi, tra gli interessi costituiti che non vogliono saperne di pagare i costi della pur necessaria transizione e i toni catastrofisti di alcuni ecologisti che contrastano con l’esperienza della stabilità del mondo: chi può credere che tutto è davvero destinato a cambiare? Neppure la scienza, coi suoi dati e le sue proiezioni, riesce a fare presa. La testa non è capace di andare dove dice il cuore.
Solo di fronte alle emergenze e al dramma l’opinione reagisce, anche se l’aggiustamento tende a essere riassorbito velocemente. Nel caso delle migrazioni, il meccanismo, anche se simile, funziona in un modo molto diverso, se non addirittura opposto. Qui la percezione del problema si forma in modo immediato, a partire dalla presenza di persone straniere nei luoghi in cui si vive. Non nei quartieri più abbienti, ma nelle periferie già cariche di problemi.
E dove lo straniero è il soggetto perfetto per essere identificato come la causa di tutti i problemi, secondo il ben noto meccanismo del capro espiatorio. Il risultato è che l’immediatezza percettiva acutizza la dimensione del problema e sollecita l’adozione di interventi d’urgenza miranti a placare la rabbia e a tamponare una falla che avrebbe bisogno di ben altro approccio. Sempre invocato e mai praticato. Così, mentre nel caso della crisi climatica si produce una rimozione (quasi non volessimo credere a quanto ci dice la scienza di fronte a emergenze sempre più gravi), nel caso delle migrazioni l’esagerazione del problema finisce per alimentare l’odio sociale.
Per di più amplificato da gran parte dei media tradizionali e, soprattutto, dai social. Dopo la stagione trionfante della globalizzazione – quando tutto sembrava ricomporsi con la parola magica della “crescita” – ci troviamo, oggi, in una stagione nuova d’impronta egoistica e bellica, ma la soluzione ai temi del riscaldamento planetario e delle migrazioni globali (così come ad altre questioni contemporanee) può infatti essere trovata – come ha ripetuto di recente il presidente Mattarella – solo attraverso il miglioramento del clima dei rapporti internazionali. E, più in generale, dei rapporti sociali. Clima che si nutre del rispetto reciproco e della faticosa ricerca del dialogo.
A partire dal riconoscimento che ciò che ci unisce è più importante di ciò che ci divide. Anche se non sembra affatto che il mondo vada in questa direzione, non possiamo fare a meno di insistere: al di là di tutte le paure e delle pur comprensibili reazioni emotive, sono la ragione e l’intelligenza a sollecitare l’adozione di uno sguardo nuovo ai problemi comuni. Non smettiamo di pensarlo, e di farlo.