Stella dell’assenza/2. La dignità del gran rifiuto
Il re allora ordinò a questi sette principi di far venire la regina Vasti nuda. La corona della regalità era suo capo per i meriti di suo padre Nabucodonosor che aveva rivestito Daniele di porpora
Targum di Ester, I
Ai potenti veri la ricchezza non basta. Hanno bisogno che la ricchezza sia vista, lodata, invidiata, e quindi deve essere eccessiva, dissipata, sprecata in cose inutili. Perché, in realtà, per loro essere ricchi e potenti è troppo poco: vogliono essere dio, esseri divini e così adorati e venerati dai sudditi. Il vitello d’oro della Bibbia non è solo icona dell’oggetto idolatrico; è anche immagine del soggetto idolatrico, di chi una volta conquistati tutti i beni avverte invincibile il desiderio del bene finale, perché escluso ai mortali in quanto prerogativa degli dèi. E così tenta questo ultimo folle volo, ma qualche volta è fermato da qualcuno che durante il tragitto tra la terra di ieri e il cielo di domani riesce a dire: “no”.
Nella versione greca del libro di Ester, quella fatta propria dalle Bibbie della tradizione cattolica, il libro inizia con la figura di Mardocheo (o Mordecai), giunto dall’esilio babilonese alla corte del re persiano Artaserse. Il testo ci narra un suo sogno: «Due enormi draghi avanzarono, tutti e due pronti alla lotta, e risuonò potente il loro grido» (Ester, 1e) - il testo di Ester basato sulla versione greca ha una numerazione speciale per le aggiunte presenti solo nel testo greco: nel primo capitolo si va da 1a a 1r. Dopo il sogno, Mardocheo sventa una congiura contro il re orchestrata da due funzionari di corte (1,1m). Li denuncia, e il re lo ricompensa con regali e nominandolo «funzionario della corte» (1,1q). Fin qui il prologo, che svolge una funzione simile alle Prefazioni dei libri scritte da personaggi più o meno illustri: il lettore o le salta o le legge di gran fretta desideroso di entrare presto nel vivo del racconto. Eccolo: «Al tempo di Assuero, di quell’Assuero che regnava dall’India fino all’Etiopia sopra centoventisette province, il re Assuero, nella cittadella di Susa, l’anno terzo del suo regno fece un banchetto a tutti i suoi principi e ai suoi ministri. I capi dell’esercito di Persia e di Media, i nobili e i governatori delle province furono riuniti alla sua presenza. Mostrò loro le ricchezze e la gloria del suo regno e il fasto magnifico della sua grandezza, per centottanta giorni» (1,1-4).
Siamo condotti dall’autore in una reggia persiana, nella città di Susa, una delle quattro capitali dell’impero, nell’anno terzo del regno di Assuero (Serse, in greco), un’ambientazione storica risalente al 483 a.C. L’ambiente è dominato dall’eccesso, da una magnificenza talmente traboccante da apparire comica e forse ridicola. Una festa cui sono invitati i capi dell’esercito, i ministri, i governatori delle province, e dura sei mesi. Lo scopo del re è esplicito: mostrare ai suoi uomini la “gloria” del suo regno e il “fasto” della sua grandezza. Poi, «passati questi giorni il re fece un altro banchetto di sette giorni, nel cortile del giardino della reggia, per tutto il popolo che si trovava nella cittadella di Susa» (1,5). Questa volta la festa è popolare, e si svolge nel parco della reggia. Magnificenza ed eccesso in tutti i dettagli: «Vi erano cortine di lino fine e di porpora viola, (…) colonne di marmo bianco; divani d’oro e d’argento sopra un pavimento di marmo verde, bianco e di madreperla e di pietre a colori» (1,6). Il vino in abbondanza e senza limiti, «si porgeva in vasi d’oro di forme svariate» (1,7).
L’antico lettore-ascoltatore ebreo non empatizzava con questa magnificenza sbalorditiva. Lo sguardo biblico sulla ricchezza è infatti sempre ambivalente, perché se da una parte può essere benedizione dall’altra è la materia prima di ogni sorta di idolo. La sola possibile ricchezza buona è comunque quella moderata, che viene in parte condivisa con i poveri. E la sola “gloria” buona da mostrare a tutti è quella di Dio, mentre le glorie degli uomini e dei re sono sempre sospette. Ecco perché quando noi lettori biblici, educati dai profeti e dalla tradizione sapienziale, incontriamo ricchezza eccessiva, dobbiamo aspettarci presto corruzione e decadenza nel prosieguo del racconto. Dovremmo allora leggere queste prime pagine di Ester con negli occhi e nel cuore le parole che Samuele disse al suo popolo che chiedeva un re: «Disse loro: Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli…; li costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere» (1 Sam 8,11-13). Ed è proprio sul destino delle donne dei re, delle “figlie profumiere” , dove si trova il cuore narrativo di questo primo capitolo, tra i più belli del libro.
In questo clima di sfarzo e di ricchezza volgare perché eccessiva, arriva il colpo di scena, un evento imprevisto, l’inedito, il “cigno nero” della storia: la libertà della regina, che con il suo gesto illumina tutto il libro di luce aurorale. Il testo ci dice che mentre i maschi facevano le loro feste eccessive e quindi sbagliate, la regina Vesti, moglie di Assuero, «offrì un banchetto alle donne nella reggia del re» (1,9). Una festa femminile parallela che ricorda quanto accadeva fino a pochi anni fa durante i summit dei capi di stato (o dell’alta finanza): mentre i mariti facevano i loro incontri e le loro lunghe riunioni, le mogli svolgevano un programma parallelo. Non sappiamo che tipo di festa fosse quella di Vasti, ma il Targum (un antico testo aramaico di commento al testo ebraico) immagina qualche altro dettaglio di quella festa minore: «Le donne le chiesero come dormiva il re, dove lui mangiava e dove beveva e dove dormiva» (Targum di Ester, II), dettagli non improbabili.
Alla fine del secondo banchetto, il re e i commensali sono sazi e sbronzi per il molto bere, ed ecco la degna conclusione di quel semestre di festa e di sfarzo: «Il settimo giorno, il re che aveva il cuore allegro per il vino, ordinò a Meumàn, a Bizzetà, a Carbonà, a Bigtà, ad Abagtà, a Zetàr e a Carcàs, i sette eunuchi che servivano alla presenza del re Assuero, che conducessero davanti a lui la regina Vasti con la corona reale, per mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza; essa infatti era di aspetto avvenente» (1,10-11). Va notato il particolare del “settimo giorno’” un numero non scelto a caso: la vita di quel re è l’emblema dell’anti-shabbat.
Giunti alla fine della festa, mancano solo la torta, il brindisi finale e possibilmente l’apoteosi della “gloria” del re, che deve essere all’altezza di una festa così spettacolare: cosa di meglio di mostrare ai capi e a tutto il popolo la ricchezza più preziosa del re, il gioiello più splendente della reggia, la “sua” meravigliosa donna? Finora non restiamo stupiti da questa iniziativa regale, perché è quello che tutti i maschi potenti hanno fatto (quasi) sempre, e che, in forme più o meno nuove, continuano ancora a fare. Anche perché molte cose sono belle sulla terra, ma le loro donne sono per gli uomini la “cosa” più bella di tutte. A stupirci, e molto, è invece la risposta della moglie: «Ma la regina Vasti rifiutò di venire, contro l’ordine che il re aveva dato» (1,12).
Ci vuole qualche secondo di silenzio per digerire la bellezza di questo gesto di dignità femminile... La forza straordinaria di un fragile “ma”: ma la regina si rifiutò. Una splendida congiunzione avversativa che da sola dice più di un trattato di teologia o di sociologia. A ricordarci che qualche volta i piani sbagliati degli uomini saltano per un umile “ma”; perché un essere umano, che può essere più libero di come un potente lo aveva immaginato, esce dal copione, salta giù dal palcoscenico e non esegue lo spartito già scritto per lui/lei, trasgredisce e fa saltare i piani e la festa. Quel rifiuto di donna ebbe da solo una forza superiore a tutta la gloria dispiegata in 187 giorni.
Il testo non ci dice il perché del “gran rifiuto” di Vasti, non ci svela le sue motivazioni. Molti commentatori lo hanno però immaginato e scritto, anche perché non è difficile da intuire, soprattutto se guardiamo quella richiesta del re con gli occhi di una donna - chissà se non ci fosse anche una mano, o uno sguardo, di donna dietro la composizione di questo libro biblico così diverso? Il doppio banchetto di Assuero era una festa di soli maschi, per di più resi alticci dal molto vino. Vasti, nel copione del marito, sarebbe dovuta arrivare nel giardino, fare la sua prima sfilata in mezzo al popolo minuto, accerchiata da mille sguardi maschili; poi continuarla nella reggia, davanti ai commensali di suo marito. Arrivarono da lei gli eunuchi, Vasti si vide in quella scena, e disse, semplicemente: “no”, “neanche per sogno”! Lo disse come lo direbbero oggi molte donne, forse tutte, poste in contesti diversi e simili. Le donne sono capaci di questi no diversi, e quando li dicono continuano a salvare sé stesse e il mondo.
Ma ciò che ci stupisce fino a commuoverci è che quel “no”, quel “ma”, li troviamo in un libro scritto circa ventiquattro secoli fa, dove le donne, neanche le regine, non avevano la libertà dei “no” e dei “ma” di fronte alle richieste dei potenti. Lo scrittore biblico lo sapeva, e scrivendo questa storia con questo “no” ha, profeticamente, anticipato tempi nuovi, quelli messianici quando le donne sarebbero state finalmente riconosciute nella loro dignità. La Bibbia è anche questo. Così quell’antico autore scrivendo questo capitolo contro-tempo ha alzato la temperatura civile della storia, ha dato voce all’anelito di dignità delle donne, dei poveri, delle vittime, di tutti. Vasti, figura effimera di soli pochi versetti di un solo capitolo, entra di diritto tra le donne della Bibbia nascoste in ruoli minori, spesso perdenti, sempre meravigliose: Agar, Dina, la maga di Endor, Puah e Sifra, la moglie anonima di Geroboamo, Hulda, Mical, le due Tamar, la donna di Tekòa, Rispa madre-sentinella di figli impiccati, Maria madre-stabat di un Figlio crocifisso.
La Bibbia custodendo quel “no” di Vasti lo ha fatto giungere fino a noi. E così in quel “no” di una donna di Persia, l’antico nome dell’Iran, noi oggi possiamo rivedervi il “no” meraviglioso di Mahsa Amini, di Hadith Najafi e di tutte le ragazze e le donne iraniane che continuano a dire “no” alle richieste sbagliate dei potenti.
l.bruni@lumsa.it