L'isola ribelle. La difesa di Taiwan dalla Cina è nell'industria dei microchip
Una veduta di Taipei, la capitale di Taiwan, col grattacielo a forma di bambù alto 509 metri
Le scuse sono arrivate immediatamente. Ma l’“incidente” ha subito innescato nell’isola ribelle una (comprensibile) ondata di panico. Protagonista l’emittente televisiva di Taiwan, Chinese Television System che, per errore, ha rilasciato una serie di lanci su un attacco cinese all’isola. «Taiwan è stata colpita dai missili teleguidati dei comunisti ». E ancora: «Esplosioni, navi e strutture danneggiate al porto di Taipei». Nulla di reale: si trattava solo di una simulazione di invasione e della sua copertura mediatica, andata in onda per sbaglio. L’incidente testimonia, in maniera trasparente, lo stato di fibrillazione in cui vive Taiwan. Una tensione cresciuta vertiginosamente dopo l’invasione della Russia ai danni dell’Ucraina e la ridda di paralleli, accostamenti, analogie con la situazione asiatica che essa ha scatenato.
Taiwan come l’Ucraina? Per l’isola è già scritto un destino simile a quello tragico toccato a Kiev? Il presidente cinese Xi Jinping non ha mai velato le intenzioni “annessioniste” di Pechino. La riunificazione è un dogma della politica del gigante asiatico. Il presidente non fa che ripeterlo, promettendo di voler «risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina», definendola come «una missione storica e un impegno incrollabile del Partito comunista cinese». «Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese di difendere la propria sovranità nazionale e integrità territoriale», ha avvertito, a più riprese, Xi Jinping. La Cina è davvero intenzionata a chiudere, una volta per tutte, la partita con Taiwan?
In realtà ci sono almeno tre ordini di ragioni che spingono a considerare l’opzione della prova di forza militare da parte di Pechino piuttosto lontana. Disinnescando, così, gli scenari più allarmistici. Primo. Taiwan gode di una sorta di protezione: è, come lo hanno battezzato gli analisti, «lo scudo di silicio». Taipei vanta una posizione privilegiata: è leader mondiale nella produzione di semiconduttori. I micro- chip che muovono le macchine più avanzate e sofisticate al mondo, dagli iPhone di Apple agli aerei da combattimento F-35, arrivano dall’isola ribelle. La sola Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. ha coperto, nel 2020, il 54% della produzione mondiale. Un’invasione di Taiwan innescherebbe una serie di ricadute economiche globali senza precedenti, ben diverse da quelle seguite alla guerra in Ucraina. Secondo uno studio del Boston Consulting Group, citato da al-Jazeera, un’interruzione di un anno della fornitura di chip taiwanesi costerebbe alle aziende tecnologiche «qualcosa come 600 miliardi di dollari». Non solo. Nel caso in cui la capacità produttiva di Taiwan fosse distrutta, la sua ricostruzione in un altro Paese richiederebbe «almeno tre anni e un investimento di 350 miliardi di dollari ». L’importanza strategica di Taipei dal punto di vista economico è poi sottolineato da un dato: nel 2020 Taiwan è stata il nono partner commerciale degli Stati Uniti (l’Ucraina si è classificata al 67° posto nel 2019).
La Cina sta vivendo politicamente una stagione particolare. Xi Jinping “corre” per un terzo mandato presidenziale. Una partita delicata (e inedita) per la storia del colosso asiatico che – secondo gli analisti – frenerebbe Xi dall’avventurarsi in azioni temerarie, le cui ricadute economiche e politiche sarebbero difficilmente calcolabili. Il caso ucraino e delle sanzioni che hanno colpito la Russia sono un precedente che Pechino sa di non potere ignorare, così come la Cina è consapevole che la Russia da sola non potrebbe supplire a una rot- tura dei legami con l’Occidente. Secondo i dati ufficiali, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina ha superato gli 800 miliardi di dollari lo scorso anno, quello con gli Usa i 750 miliardi, mentre il suo commercio con la Russia è stato di poco inferiore ai 150 miliardi di dollari. Un’azione militare esporrebbe dunque la Cina a un isolamento estremamente pericoloso per la sua economia. E non solo per quella. Perché la pax cinese – che contiene elementi di grande fragilità nonostante il regime diffonda una immagine monolitica della sua presa sul Paese – da anni si regge sul pilastro della crescita economica e della diffusione del benessere. Senza di queste la conflittualità sociale potrebbe riesplodere e raggiungere soglie di allarme.
C’è poi un altro ordine di ragioni che sembra allontanare lo scenario dell’invasione. Ed è il piano militare. Perché a differenza di quanto accaduto in Ucraina – dove Usa e Nato si stanno limitando a fornire in maniera massiccia armi e supporto d’intelligence – nel caso di un attacco a Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero pronti a intervenire militarmente. Con esisti catastrofici. D’altronde, come ricorda il sito The Diplomat, l’amministrazione Eisenhower, durante gli anni 50, minacciò per ben due volte la guerra atomica per difendere Taiwan, con la quale gli Stati Uniti avevano un trattato di mutua difesa (firmato nel 1954). Come è stato spesso icasticamente ripetuto, insomma, non solo Taiwan non è l’Ucraina ma la Cina non è la Russia. Quest’ultima è una potenza regionale che sta “giocando” drammaticamente la sua partita sui tempi brevi della guerra per tamponare la sua perdita di peso strategico.
La competizione cinese è invece planetaria ed è a lungo raggio. Pechino sa che deve attendere. La prudenza è suggerita anche da una serie di ragioni pratiche. Sebbene Pechino da anni stia potenziando e modernizzando l’esercito per trasformarlo in una micidiale macchina da guerra, è anche vero che il Pla non ha testato le sue capacità operative sul campo. La Cina, a differenza della Russia, si è astenuta in tempi recenti da invasioni o occupazioni di altri Paesi da quando è intervenuta nel Vietnam nel 1979. Come si legge sul sito dell’United States Institute of peace( Usip), «mentre la Russia ha più di 20 basi militari oltre i suoi confini, ad oggi, la Cina ha solo un avamposto ufficiale all’estero – a Gibuti – e una manciata di altre strutture che non riconosce formalmente ». A parte la conflittualità endemica sul confine indiano, Pechino ha una storia di utilizzo delle sue forze armate e del suo apparato coercitivo «limitato all’interno dei confini nazionali per reprimere vigorosamente manifestanti pacifici, dissidenti politici e minoranze etniche».
C’è, infine, l’ultimo fattore che sembra scongiurare le previsioni più funeste. È quello demografico. Taiwan ha oggi 23 milioni di abitanti. E anche uno dei tassi di crescita demografici più bassi al mondo. Si calcola che entro il 2065, il 40% della popolazione taiwanese avrà un’età superiore ai 65 anni. Il rapporto con la straripante forza demografica della madrepatria – anche questa interessata dalla crisi demografica – è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima. L’annessione di Taiwan potrebbe così avvenire in maniera “morbida”.