Riflusso neonazista. La deriva dell'Est Europa: negare gli orrori del passato
Sofia. Nazionalisti bulgari in marcia durante una commemorazione del generale Hristo Lukov (Foto Reuters)
La legge approvata di recente a Varsavia (e ora al vaglio della Corte costituzionale) che proibisce di attribuire alla Polonia e ai polacchi corresponsabilità nella Shoah è solo l’ultimo episodio di una lunga serie registrata negli anni recenti in varie nazioni europee. La tendenza generale è a sollevare i governi passati dalle responsabilità sulle persecuzioni sistematiche contro interi gruppi o popolazioni, soprattutto ebrei. Anche se il premier polacco Mateusz Morawiecki, dopo le proteste della comunità internazionale, nelle ultime ore si è detto disponibile a modificare la legge, i segnali che arrivano da altri Paesi non sembrano molto concilianti. Particolarmente preoccupante è quello che sta accadendo in Bulgaria, dove dal 2003 i movimenti neonazisti guidati dall’Unione Nazionale Bulgara organizzano una marcia per commemorare Hristo Lukov, leader dell’Unione delle Legioni Nazionaliste Bulgare, il quale, durante la Seconda Guerra Mondiale appoggiò personalmente le leggi antisemite approvate dal Parlamento nel gennaio 1941.
La marcia, non approvata dal governo e dalle autorità, ma tacitamente appoggiata da diversi dei suoi componenti, si snoda lungo le vie di Sofia ogni febbraio, mese in cui, nel 1943, Lukov venne assassinato dai partigiani comunisti nella capitale bulgara. L’evento, quest’anno è destinato a rivestire un significato particolare, perché la Bulgaria è presidente di turno dell’Unione Europea e lo svolgimento della sfilata di gruppi neonazisti, anche stavolta non autorizzata ma tollerata, può costituire un segnale molto forte e significativo davanti a tutti gli Stati della comunità. Per contrastare il nascente riflusso neonazista, nel 2003 (stesso anno in cui si iniziò ad organizzare la marcia di Lukov), le autorità del Paese balcanico hanno istituito la giornata del Riscatto degli ebrei bulgari, che ricorda figure come l’avvocato e politico Dimitar Peshev, l’esarca della Chiesa Ortodossa Bulgara Stefano e il metropolita di Plovdiv Cirillo: grazie alla loro abnegazione vennero salvati dalla Shoah circa 48.000 ebrei.
In Ucraina, invece, la recente guerra civile ha contribuito a rafforzare la linfa nazionalista in veste xenofoba. Nel 2015, il Parlamento ucraino ha approvato l’obbligo di onorare alcuni dei nazionalisti ucraini che durante la Seconda guerra mondiale hanno collaborato con i nazisti partecipando a rastrellamenti e uccisioni di ebrei nel Paese. La legge, oltre a dichiarare le organizzazioni collaborazioniste Oun (Organizzazione di Nazionalisti Ucraini) e Upa (Esercito dei Ribelli Ucraini) 'combattenti per lo Stato ucraino', autorizza a perseguire chiunque 'esprima in pubblico disprezzo e irriverenza' verso i leader nazionalisti.
Così collaborazionisti ucraini come Stepan Bandera sono stati insigniti, sin dal 2010, del titolo di Eroi dell’Ucraina, nonostante le vibranti proteste del Centro Simon Wiesenthal, dell’Unione degli Studenti Ebrei Francesi e del Parlamento Europeo. a denuncia di collaborazionisti dei nazisti Lassurti al rango di eroi nazionalisti è costata cara anche a Ruta Vanagaite, scrittrice lituana e autrice del best seller Musiskiai ('La nostra gente'), in cui svela il ruolo degli indipendentisti e dei patrioti nella persecuzione degli ebrei lituani durante l’occupazione nazista. Già poco apprezzato dai politici della Lituania perché considerato pericoloso per la sicurezza nazionale a causa delle critiche verso famiglie di spicco della società lituana, il libro della Vanagaite ha suscitato un vespaio di polemiche per gli addebiti verso Adolfas Ramanauskas-Vanagas, eroe della patria, accusato di aver collaborato con i gerarchi nazisti nella soluzione finale.
Ramanauskas elogiato nei libri di storia lituani per aver combattuto nelle file dei nazionalisti contro l’Armata Rossa sovietica, nel 2009 venne inserito dall’Associazione degli Ebrei Lituani, nella lista di 4.000 nomi identificati come 'uccisori di ebrei' (solo il 4% dei 200.000 ebrei lituani erano ancora vivi alla fine della guerra). Nell’ottobre 2017 l’Alma Littera, la casa editrice di Vanagaite ha annunciato di aver rotto ogni rapporto con la scrittrice ritirando dal mercato le copie dei suoi cinque lavori anche per non incappare nelle ire del governo, che ha dichiarato il 2018 anno di Ramanauskas-Vanagas.
La rivalutazione di politici che hanno giocato un ruolo importante durante l’occupazione dell’amministrazione del Terzo Reich ha coinvolto anche l’Ungheria, uno dei Paesi più refrattari all’accoglienza degli immigrati. Lo scorso luglio il governo di Viktor Orban ha utilizzato in modo alquanto discutibile l’immagine del finanziere ungherese di origini ebraiche George Soros per una feroce campagna antimmigrazione e xenofoba: ha promosso un disegno di legge che introduce una tassa del 25% sulle Ong che aiutano i migranti, molte delle quali sostenute dallo stesso Soros. Un’iniziativa che ha spinto l’Onu a intervenire invitando Budapest a rivedere la legge che «minaccia il lavoro della società civile».
L’iniziativa ungherese è he ben presto è sfociata in aperto antisemitismo, giungendo a riabilitare la controversa figura di Miklos Horthy. Orban ha definito Horthy un «diplomatico eccezionale» suscitando le ire della comunità ebraica, non solo ungherese, che ha ricordato a Budapest il ruolo avuto dal reggente del regno di Ungheria, un «acceso antisemita resosi complice della morte della popolazione ebrea del Paese durante l’Olocausto». Poco o nulla è valsa la parziale retromarcia del primo ministro, il quale ha giustificato la collaborazione con i nazisti come unica via per proteggere gli ebrei residenti in Ungheria. L’immagine di Horthy è oramai associata al Movimento di Guardia Magiara e all’Associazione delle guardie civili per un futuro migliore, i movimenti paramilitari neonazisti xenofobi e antisemiti responsabili di numerosi attacchi contro comunità straniere, semite e rom presenti in Ungheria.
Preoccupante anche la situazione nella ex Jugoslavia, in particolare in Croazia, dove si innalzano sempre più le voci che vorrebbero la riabilitazione degli Ustasha e dei dirigenti dello Stato indipendente della Croazia (NDH), lo Stato fantoccio creato a supporto del Terzo Reich. Nel marzo 2016, durante la partita di calcio con Israele, tifosi croati cantarono lo slogan Ustasha 'Za dom spremni' (Pronti per la madrepatria), senza che l’allora primo ministro croato, Tihomir Oreskovic, presente allo stadio, ne fosse turbato. Appena un mese più tardi il ministro della Cultura, Zlatko Hasanbegovic, elogiò il documentario di Jakov Sedlar 'Jasenovac-La verità', dove si descriveva come un semplice campo di lavoro il lager di Jasenovac, gestito dal croato Dinko Sakic, in cui persero la vita tra i 77.000 e i 100.000 prigionieri. Natasa Matausic, portavoce del Jasenovac Memorial Site, esprime tutta la sua preoccupazione: «Quello che sta avvenendo è una negazione del genocidio e dell’Olocausto che è avvenuto in Croazia». Una frase che, purtroppo, può essere estesa a numerosi Paesi dell’Est Europa, ma non solo.