Vi sono varie ragioni per sottolineare l’importanza – a suo modo storica – delle elezioni presidenziali svoltesi domenica in Cile, nelle quali il candidato della destra liberale, Sebastian Piñera, è prevalso di misura sul dc Eduardo Frei Ruiz-Tagle (già presidente dal 1994 al 2000). L’unico dato normale di queste elezioni è infatti la regolarità del funzionamento della democrazia cilena: Piñera è il quinto presidente eletto negli ultimi vent’anni, dalla fine della dittatura di Augusto Pinochet Ugarte nel marzo 1990. E questo voto, come i quattro precedenti (1990, 1994, 2000 e 2006), si è svolto in maniera ordinata e civile, si sarebbe tentati di dire esemplare. Ciò corrisponde, del resto, alle grandi tradizioni della democrazia cilena, una delle più solide e continue al mondo, a lungo una eccezione nell’America Latina dei caudillos e dei colpi di Stato. Ma questa tradizione ha a sua volta conosciuto un periodo tragico: il ventennio dal 1970 al 1990 ha infatti visto la crisi del modello democratico liberale di matrice occidentale. Dapprima con l’esperimento socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto nel 1970, ma poi leader di un tentativo di rivoluzione sociale per vie legali rimasto minoritario nella società; poi con il colpo di Stato del generale Pinochet, che l’11 settembre 1973 interruppe tale tentativo e instaurò un regime autoritario nel quale oltre tremila cileni trovarono la morte. Sicché dal 1990 il Cile si è in qualche modo trovato a ricominciare daccapo: ma lo ha fatto, sinora, con un equilibrio che gli ha restituito il rango di 'primo della classe' nella democrazia latino-americana. Il ventennio trascorso dal 1990 ad oggi ha avuto un protagonista assoluto: una coalizione di vari partiti di centro e di sinistra, imperniata sulla Democrazia cristiana e sul Partito socialista, definita Concertación, nella quale erano riunite varie forze un tempo fra loro rivali, e che avevano trovato un denominatore comune nell’opposizione a Pinochet e nel voto che nel plebiscito tenutosi nel 1988 aveva ottenuto la fine della dittatura. In questi venti anni due presidenti dc (Alywin e Frei) e due socialisti (Lagos e Bachelet) hanno saputo coniugare innovazione e fedeltà a regole costituzionali che ne hanno – specie all’inizio – severamente limitato il potere (la Costituzione cilena, del 1980, è ancora quella di Pinochet, sia pure più volte modificata). Così come una serie di riforme sociali non ha comportato l’abbandono dei criteri di gestione di una economia sana, che fa del Cile una piccola 'tigre' del Cono Sud, con tassi di crescita a tratti di tipo cinese e comunque rispettabili anche in tempi di crisi globale (circa il 4% nel 2009). Naturalmente una gestione del potere così lunga non è stata senza scandali e insuccessi, e soprattutto la convivenza di culture diverse (come quella cattolica e quella socialista) ha dato negli ultimi tempi il senso di una coalizione bloccata dai veti reciproci e divisa al suo interno. Il vincitore di domenica, il 60enne Sebastian Piñera, eredita dunque una situazione non certo disastrosa: malgrado la sconfitta di Frei, la popolarità della presidente uscente, Michelle Bachelet, veleggia attorno all’80%, un po’ troppo per un malcontento radicale. Ma la voglia di cambio era ben visibile già al primo turno, nel 20% di voti andato al socialista dissidente Marcos Enríquez Ominami, una parte dei cui elettori ha contribuito a portare Piñera al Palazzo della Moneda. Le contraddizioni del nuovo capo dello Stato, che si insedierà a marzo, non mancano certo. Il rischio del conflitto di interesse (è un miliardario, proprietario della compagnia aerea Lanchile, della popolare squadra di Calcio del Colo-Colo e di altre imprese tra cui una tv); i potenziali contrasti con l’ala più popolar-populista della sua coalizione (l’Udi di Joaquín Lavín, che, a differenza della Renovación nacional di Piñera, non ha rinnegato tutti i legami con Pinochet); la 'solitudine' politica in un’America Latina sempre più a sinistra, con l’eccezione della Colombia di Uribe e del Messico di Calderón. Ma la solidità della democrazia cilena e dei contrappesi al potere della Moneda lascia supporre che Piñera sarà tutt’altro che un presidente onnipotente. Del resto il Cile è uno dei pochi residui Stati latinoamericani a impedire la rielezione immediata dei presidenti anche molto popolari, proprio mentre i vari caudillos - di destra o di sinistra - tendono a perpetuarsi al potere in tutto il subcontinente. D’altro canto, la sconfitta di Frei – venti giorni dopo la morte dell’ex presidente venezuelano Caldera – segna la crisi della tradizione dc in America Latina. Anche per il cattolicesimo politico si apre una fase nuova, per ora densa di incognite.