L'età, la malattia e la resilienza del potere: il contagio del modello cubano. La danza macabra di Castro e i suoi fratelli
Ottantasei anni Fidel, ottantadue Raúl, cinquantaquattro anni ininterrotti al potere. E negli ultimi tempi l’ingannevole messinscena di un garbato ritiro dal proscenio, Fidel disarmato dagli insulti dell’età e della salute, Raúl con il piglio modesto del reggente pro tempore. Sembrava tutto molto verosimile, anche perché ai loro piedi scalpitavano imitatori, seguaci devoti e veri e propri delfini. Come Hugo Chávez, el indio, bolivariano entusiasta e interprete diligente della lezione cubana fino a interpretarla con il piglio del perfetto etno-caudillo, lo stesso che nel 2006 portò al potere il gemello politico di Chávez, quell’Evo Morales populista e rivoluzionario che indossa più volentieri la chompa di alpaca a righe dei cocaleros boliviani che il gessato d’ordinanza dei capi di Stato.
Senza dimenticare Ricardo Alarcón de Quesada, numero tre del regime cubano, ambasciatore all’Onu, presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, sopravvissuto fino a ieri a ogni epurazione, sempre un passo indietro rispetto ai fratelli Castro come un principe consorte, ma sempre inossidabile all’ombra del potere. Giovanissimo, Alarcón: ha solo 75 anni, niente a confronto dei novant’anni di José Ramón Fernández, o degli 82 di José Machádo Ventura e di innumerevoli membri del Politburo cubano. Eppure per lui, il più americano dei dirigenti politici cubani, è suonata la campana di fine mandato. Se ne va, lascia – apprezziamone l’agro umorismo caraibico – 'per raggiunti limiti di età'. E non è che l’ultimo di una lunga serie: prima di lui scomparvero Camilo Cienfuegos (rivoluzionario della prima ora, precipitato con il suo Cessna all’indomani della rivoluzione), il comandante Arnaldo Ochóa (accusato di tradimento), e poi piccoli e grandi dirigenti e giovani ambiziosi, fino a Roberto Robaina e Carlos Lago, due astri nascenti (si pensava) consumatisi con la rapidità di una fiammata, e a Perez Roque, salito al vertice del favore dei fratelli Castro nel 2001 e precipitato nella polvere pochi anni più tardi.
Nemmeno Chávez, il Migliore in salsa caraibica, sfugge al suo destino, o se preferite al sinistro incantesimo che tiene in vita la dinastia dei Castro: la malattia lo divora in una clinica cubana e gli impedisce perfino di prendere parte al suo insediamento a Caracas. Nelle tetre pinturas negras di Francisco Goya ce n’è una che raffigura Crono che divora i suoi figli, allegoria perfetta del terrore di perdere il potere che assedia i tiranni d’ogni epoca. Difficile sfuggire a questa pur facile suggestione. E difficile anche che, a dispetto delle tenui modernizzazioni, del passaporto concesso ad alcune categorie, della vendita controllata di telefoni cellulari, del permesso di comprare e vendere proprietà immobiliari, qualcosa di significativo cambi davvero a Cuba. Dove un dissidente può ancora morire di fame in carcere e si può essere arrestati per un blog sgradito al regime. Fino a quando i patriarchi saranno al potere. E fino a quando continueranno a nutrirsi dei propri figli per rimanerci.