Opinioni

Il senso della festa dopo il lavoro. La danza dei cigni neri

Alessandro D’Avenia martedì 12 giugno 2012
A guardare i documentari sugli animali si ritrova la speranza. C’è una intelligenza, una bellezza, una semplicità e un’ironia nei loro comportamenti che mi rassicura. È lampante che quelle qualità non sono loro. Uno degli spettacoli che mi ha colpito di più è quello descritto dal naturalista svizzero Alfred Portmann: i cigni neri – dopo migliaia di chilometri di migrazioni transmarine – quando finalmente trovano uno stagno d’acqua dolce e potrebbero, ormai esausti, abbeverarsi, prima di lanciarsi a capofitto in acqua, inscenano una sorprendente danza rituale attorno allo specchio d’acqua. Solo dopo questa danza vanno ad abbeverarsi. Questa coreografia sembra andare al di là del semplice comportamento funzionale e dettato dall’istinto, per questo colpisce noi uomini, dotati della stessa capacità: fare festa dopo il duro lavoro, celebrando la bellezza di qualcosa che percepiamo come un dono.L’uomo è posto da Dio nel giardino dell’Eden perché "lo lavori e lo custodisca" si dice nella Genesi (2,15). Il creato, prima del peccato originale, è lo spazio della creatività umana. L’uomo è chiamato a lavorare e custodire la creazione che gli è affidata e nel farlo festeggia, riposa, gioisce ed entra in rapporto con Dio, «che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» con l’uomo (<+corsivo>Gn <+tondo>3, 8) o almeno anche quel giorno avrebbe voluto farlo. Ma quel giorno l’uomo aveva peccato e per la vergogna si era nascosto. Il creato diventa allora per l’uomo nascondiglio o avversario. Il peccato non introduce il lavoro nel piano divino, che c’era già, ma la fatica e la resistenza del creato a svilupparsi secondo il progetto di Dio affidato all’uomo. Platone, lucido interprete del mondo caduto, scrisse che gli dei condannarono l’uomo al lavoro e per compassione gli concessero intervalli di riposo per le feste, affinché l’uomo ricevesse in quelle occasioni la luce e la forza per vivere rettamente. La festa diventa una specie di condono alla condanna quotidiana del lavoro. Gli antichi riconoscono nella festa quella luce originaria dell’uomo che lavora e custodisce il giardino, ma non riescono a riconoscere più il legame divino tra lavoro e uomo, schiacciati solo dall’aspetto negativo: la fatica, la ripetitività, la necessità. Ma l’incarnazione ci aiuta a rimettere il progetto divino in ordine e ci dà la possibilità di far festa nel quotidiano ripetitivo e faticoso. Il fatto che il Dio fatto carne abbia avuto un lavoro e lo abbia svolto per trent’anni elimina ogni ombra possibile sul lavoro umano. Cristo era noto come falegname e chissà quanti tavoli avrà piallato nella sua vita: e quel fare tavoli è redentivo quanto fare i miracoli. I trent’anni di vita ordinaria di Cristo ci aiutano a rientrare nel piano originario di Dio: il lavoro – purché onesto – non è condanna, ma progetto divino, e la festa, dopo il peccato originale, è ratifica del fatto che verrà un tempo, qui solo intravisto e fuggevole, in cui celebreremo in una unica ininterrotta festa i doni del creato, come l’acqua per i cigni neri.L’uomo per dialogare con Dio è chiamato tuttora a coltivare e custodire il pezzo di giardino che gli è affidato. Creare per l’uomo è questa partecipazione allo sviluppo e alla custodia delle risorse che gli sono date. Questo mandato non è cambiato e l’uomo e la donna che lavorano nel posto giusto vedono e sentono fiorire le proprie qualità e quelle di chi è beneficiario di quel lavoro, nonostante la fatica che comporti. Gioioso è solo chi lavorando riposa o riposa lavorando. Il tempo libero, come ahimè anche i cristiani si sono abituati a chiamarlo, è in realtà tempo della festa, tempo in cui si festeggia la gioia del dono ricevuto.Ma coerentemente con un lavoro vissuto senza la luce dell’incarnazione, lavoro come condanna, semplice neg-otium, rispetto all’otium degli dei, il tempo libero è soltanto quello privo di lavoro. Solo se il lavoro diventa luogo della coltivazione di sé e dono dei propri talenti agli altri, il tempo in cui l’uomo non lavora diventa tempo della festa e – in continuità con quello del lavoro – coltivazione di sé, priva, questo sì, dell’affanno dell’utile, ma pura gioia del ricevere e del condividere. L’uomo è chiamato a creare la propria bellezza. Non è già fatta, ma da compiere, in sé e nelle cose: il termine creatura infatti origina dal participio futuro latino ed esprime quella tensione verso un compimento di ciò che è già in potenza. È necessario riportare il fuoco nel grigiore del lavoro quotidiano puramente funzionale. Questo passa solo attraverso quell’arte del vivere che Cristo è venuto a insegnarci con la sua vita umano-divina e a donarci per via di grazia. Non può non stupirci che la sua vita pubblica cominci con una festa di nozze, durante la quale il vino, frutto della terra e del lavoro degli uomini trasformato in accompagnamento della celebrazione della festa, termina. Cristo trasforma l’acqua in vino e lo dona a chi è già un po’ brillo. Egli è venuto sulla terra non per rovinare la festa all’uomo, ma per ricordargli che la gioia non finisce. Lo fa durante una festa familiare: è proprio in famiglia che va inventato, creato, coltivato, difeso un tempo della festa simile alla danza paradisiaca dei cigni neri stanchi dopo il lungo volo.