Il mercato dell’arte, per non essere da meno, ha deciso anche lui di andare in crisi. I prezzi calano, i soloni della speculazione di ieri sono già pronti a presentare merce alternativa a quella che si sta sciogliendo come neve al sole e pretendono che il pubblico e i collezionisti prestino loro rinnovata fiducia. Rispetto alla crisi della finanza mondiale quella dell’arte appare immediatamente come una parodia. La bolla grande del sistema bancario non è esplosa, è evaporata perché non era più in grado di crescere oltre: aveva consumato tutta l’aria che c’era. Quella dell’arte a suo confronto era una bollicina piccola piccola che poteva continuare a rotolare tranquillamente per il globo terrestre: le bastava trovare il prossimo gonzo al quale rifilare il fiammifero acceso. Come spiegare allora il fenomeno in corso. Assai semplice. I mercati veri si fondano sulla legge dell’offerta e della domanda, crescono in base alle contrattazioni, crollano per mancanza di masse liquide o di voglia di spenderle. Durante la loro perigliosa esistenza, fluttuano. Il mercato dell’arte di fonda su un principio molto più complesso. Lo spiega assai semplicemente la teoria marginalistica che pose le basi delle analisi del XX secolo, quella inventata dall’inglese Jevons e applicata alle imprese dall’austriaco Schumpeter. La teoria potrebbe suonare in qualche modo così: quando il prezzo ha dimenticato i riferimenti di costo e corre libero sul mercato, sono disposto a spendere una cifra che è il margine ultimo dell’utilità che intendo trarre. È una sorta di teoria del sacrificio di Abramo al quale Dio chiede la vita del figlio a dimostrazione della sua dedizione, anche se poi il figlio viene sostituito da un ariete. In altre parole mi viene richiesto il massimo sacrificio economico possibile per soddisfare il mio desiderio. Quindi il prezzo dell’opera d’arte non viene determinato dalla contrattazione ma dalla mia stessa dimensione economica. È esso totalmente soggettivo. Un petroliere americano paga in base alla quantità e al valore dei barili che estrae in Texas, un oligarca russo paga in base al valore delle fabbriche di carri armati che è riuscito a portarsi a casa dopo lo scioglimento dello Stato. Calcolato in barili di petrolio, passati in una dozzina d’anni da 9 a 150 e ora a 40 dollari, un quadro di Pollock costa sempre la medesima cifra. Anche in carri armati russi o in borsette cinesi. Il mercato è quindi stabile nella visione soggettiva del grande acquirente. Fluttua solo per noi che analizziamo le cifre in base ai nostri modesti introiti. Roba ininfluente. Fluttua pure per i mercanti e gli speculatori che sono andati sul mercato finanziario per procurarsi il denaro necessario ad acquistare le opere da rifilare all’oligarca di turno. Quelli sono affari loro, poveretti che rischiano oggettivamente tanto oggi. Non è grave per l’economia del mondo, solo per la loro. In compenso è forse utile per tutti quegli artisti che si trovavano fino a ieri fuori dalla scorpacciata. Quelli che la intima cattiveria dei direttori dei nostri musei d’arte contemporanea teneva in situazione di miseria mentre usavano il denaro pubblico per battere la gran cassa a favore del mercato degli speculatori. Si apre una fortunata nuova epoca. E si deve aggiungere un’ultima considerazione: passata la crisi (e passerà!) il gusto di prima assumerà quel sapore di noiosa obsolescenza che hanno sempre le mode appena passate. E un giorno verrà riscoperto da un esperto di modernariato. Nel frattempo i barili e i carri lo avranno dimenticato.