Il Concistoro e i cristiani in Nigeria. La creta e il sangue
Ma guardando quei sei uomini rivestiti di porpora si è visto che uno è nigeriano, un altro è il patriarca maronita del Libano, un altro ancora tornerà presto in Colombia, uno dei cuori del dolore e della speranza del Sud America. Si potrebbe dire allora che il Papa manda uomini suoi, fidati, negli angoli più travagliati del pianeta; ma in realtà in questo invio c’è ben più che una selezione di 'osservatori', come la farebbe l’Onu. L’aveva annunciato lo stesso Benedetto XVI chiudendo il Sinodo, il 27 ottobre, il senso di questo 'piccolo Concistoro': io ho voluto, aveva detto, mostrare che 'la Chiesa è Chiesa di tutti i popo-li, parla tutte le lingue, è sempre Chiesa di Pentecoste'. E dunque quelle sei porpore mandate in terre remote sembrano un respiro grande, profondo, della Chiesa universale; che alza la testa, e guarda più lontano.
Ma, dicevamo, non sembra sideralmente 'altra' la pace della basilica di San Pietro, da quella città del nord della Nigeria, Jaji, dove in due attentati kamikaze sono morti l’altroieri undici cristiani protestanti, appena usciti dalla funzione domenicale? Che ha a che fare un Concistoro che colma San Pietro del suo rosso porpora, con la polvere e il sangue di un Paese dove dal 2009, secondo Human Rights Watch, sono stati uccisi dagli integralisti islamici tremila cristiani?
Il sangue, il colore del sangue è il legame che tiene avvinti i nuovi e vecchi cardinali a terre a noi sconosciute e lontane. Non sono, questi, generali spediti a presidiare posizioni su un fronte militare. Sono di più: uomini chiamati, ha ricordato loro espressamente il Papa, a comportarsi 'con fortezza, fino all’effusione del sangue', per l’incremento della fede e del popolo di Dio. Usque ad effusionem sanguinis . E non deve essere sembrato un modo di dire al cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria; e nemmeno a chi domani tornerà in Libano, al centro di un Medio Oriente oppresso dall’odio.
Per noi che viviamo, sì, impoveriti, allarmati, rassegnati, e però in pace, è difficile immaginare come appena oltre i confini d’Europa testimoniare Cristo possa significare dare la vita. E tuttavia il Papa in chiusura del Sinodo, dopo avere molto ascoltato anche di persecuzioni e dolore, aveva detto: «È stato per me consolante e incoraggiante vedere qui lo specchio della Chiesa universale con le sue sofferenze, minacce, pericoli e gioie... Abbiamo sentito come la Chiesa anche oggi cresce, vive».
Cresce. Vive. Comunque. Perché è da quasi due millenni che nella Chiesa si dice, con Tertulliano, sanguis martyrum, semen Christianorum, il sangue dei martiri è seme di cristiani. Nemmeno la morte è, in uno sguardo autenticamente cristiano, sconfitta definitiva, speranza annichilita. Non in quel regno, che «non è di quaggiù», come Gesù spiega all’allibito Pilato. Un concetto, questo, quasi incomprensibile agli uomini. Tanto che gli stessi Apostoli, all’Ascensione, ostinati ancora chiedevano a Cristo se era quello, finalmente, il tempo in cui avrebbe ricostituito il regno davidico, il regno di Israele – lo ha ricordato proprio il Papa ai nuovi cardinali, in Concistoro. E tuttavia Cristo, promesso lo Spirito, mandò i suoi. Vasi di creta, come oggi questi nuovi principi della Chiesa; inviati per il mondo, tra i popoli, lontano, nella babele di lingue sconosciute. Come il respiro più grande di una Chiesa senza confini. Vasi di creta, con dentro un non misurabile tesoro.