Scuola. La cosa più importante. Insegnare oggi, anche giovanissimi
Domani, sette settembre, già alcune scuole riaprono. Istituti superiori a Milano e nell’hinterland: come presi da un’urgenza, da un’ansia. Quasi percependo che la scuola, di un Paese, è vena portante, e che questa lunga chiusura è come un ictus che va sciolto, al più presto, comunque. Migliaia di cattedre vacanti, aule che mancano, incertezze di ogni tipo, è vero. Ma occorre che si torni. Che la vita torni a scorrere, nelle scuole.
Tra quanti saliranno per la prima volta in cattedra domani c’è un figlio, laureato da poco. Due giorni fa annuncia a sorpresa che lascia uno stage interessante, e va a insegnare. In una superiore paritaria dell’hinterland milanese, a ragazzi di istituto tecnico e liceale, dai 14 ai 18 anni. Alcuni hanno appena sette anni meno di lui. (Forse un bidello, vedendolo in corridoio nell’ora di lezione, gli griderà: "Che fai qui? Fila in classe!").
Hai voglia di andare in battaglia, ho pensato. Era più comodo, uno stage nel centro di Milano. Ma questa nostra scuola già così difficile e troppo lasciata a se stessa, ora nel ritorno dal lockdown, nel disastrato 2020, sembra un mare in tempesta. E posso capire che, a 25 anni, uno abbia il desiderio buono di buttarcisi. Soprattutto un figlio che ci ha detto una volta: «In fondo la cosa più importante, oggi, è insegnare». È vero: curare, certo, e governare, e fare andare avanti le aziende, tutto ciò è importantissimo. Ma educare lo è altrettanto e persino di più, e soprattutto oggi con una generazione cresciuta spesso sola davanti agli schermi degli smartphones, dentro a mille parole spesso fasulle, tante volte vuote.
Auguri, dunque. Al figlio e a ogni altro insegnante, soprattutto quelli alla prima prova. Io, in un’aula piena di quindicenni mi sentirei in una fossa di leoni. Che lingua parlano, cosa riesce a interessarli? E mi immagino un giovane insegnante alle sette del mattino, su un treno di pendolari ammutoliti dalle mascherine. E nel chiasso, poi, di un cortile pieno di adolescenti che si ritrovano e si abbracciano, Covid o no, dopo mesi. Quel ragazzino, domandano, è il professore? Fra i banchi sorrideranno: adesso vediamo chi comanda...
Poi il giovane prof comincerà a parlare. Per un minuto forse ci sarà il silenzio. Poi, decideranno se quello che dice gli interessa. E non sarà il latino e il greco studiato ad aiutarlo, ma la sua umanità. La capacità di entrare in dialogo con quelle trenta paia di occhi. Occhi curiosi, o ironici, o magari già amari. Potrà dire loro le cose più acute e dotte. Ma ciò che conta è che quei quindicenni si accorgano che al professore importa di loro. Insegnare non è solo spiegare la grammatica e la sintassi, sarebbe troppo facile. Insegnare è e-ducare, cioè trarre fuori e condurre con sé: e perché gli studenti dovrebbero seguirti, se sentono che a te non importa di loro?
A sedici anni chi scrive aveva poca voglia di studiare, e detestava Dante. Arrivò in cattedra un professore con i capelli dritti in testa, come Stanlio. Ne ridacchiammo, pensando: questo non dura. Ma il professore prese a parlare di un canto dell’Inferno di cui noi non capivamo niente, come conducendoci per le vie di un palazzo arcano, ma a lui ben noto. La classe ammutolì.
Poi un compagno fece una domanda che c’entrava con noi, con la nostra vita. E il professore lo ascoltò attento, e rispose come se la nostra domanda fosse per lui cosa seria. Come se le nostre domande per lui fossero importanti. Per questo, cominciammo a volergli bene. (E credo che, almeno in questo, i ragazzi degli anni Settanta e quelli di oggi non siano così diversi).
Auguri a tutti gli insegnanti. E auguri a te, figlio, che su quella cattedra salirai con imbarazzo – abituato ancora come sei a stare dall’altra parte – perché tu non ti scoraggi. Forse ti troverai un muro davanti, forse si prenderanno gioco di te, o se ne verranno fuori in provocazioni adolescenziali. Non lasciarti smontare dai primi insuccessi. È difficile insegnare, più che stare seduti davanti a un computer. Tutti quegli occhi che ti guardano, e in ciascun viso una storia, delle speranze, e forse già dei vuoti.
Ci sono alle volte, nelle famiglie difficili, dei fratelli maggiori che sanno prendersi cura dei più giovani. Questo ti auguro, se così giovane continuerai a fare il professore: sii un fratello maggiore. Che insegna sì l’italiano e la storia, ma lascia filtrare tra le parole, implicito ma percepibile, il senso e la certezza di una vita buona. Di tutto ciò che si può dare oggi a dei ragazzi, la cosa più importante.