Come preservare il bene della cooperazione sociale. La corruzione si batte ma non con le gare
Caro direttore,
fa impressione constatare quanto poco siano conosciute le caratteristiche e la rilevanza della cooperazione sociale, uno dei pilastri dell’offerta di servizi sociali in Italia: 13mila realtà con altre 400mila addetti e non meno di 7 milioni di utenti. E come questo possa riguardare anche persone di grande competenza. A volte, verrebbe da dire, è una specifica e forte competenza propria dell’osservatore che può indurre in errore. Così mi pare nel caso di alcune affermazioni rese ad “Avvenire” di Raffaele Cantone, il magistrato che oggi guida l’Autorità nazionale anticorruzione. Esse, infatti, propongono valutazioni e indicano soluzioni che appaiono derivate dalle indagini in corso su fenomeni di corruzione decisamente gravi eppure relativi a soltanto una piccola parte del mondo della cooperazione sociale. Non si può certo dire che la cooperazione sociale in quanto tale – e in particolare quella di inserimento lavorativo – abbia inquinato il sistema degli appalti, che dietro queste cooperative si nascondano solo o soprattutto affaristi e, infine, che non alcune di esse – quelle sotto inchiesta – ma praticamente tutte hanno «drenato quantità enormi di denaro pubblico».
Non si può e non si deve dimenticare quanto le cooperative sociali hanno fatto risparmiare alle pubbliche amministrazioni sia direttamente, gestendo servizi sociali indispensabili a costi contenuti, sia indirettamente. Dalle ricerche realizzate in questi anni risulta, ad esempio, che le cooperative di tipo B, pur dipendendo da finanziamenti pubblici per meno del 50% dei loro fatturati, garantiscono risparmi di spesa quantificati tra un minimo di 4.000 e un massimo di 7.000 euro annui per lavoratore svantaggiato inserito. Vanno poi aggiunte cifre assai superiori per tutti coloro che, grazie all’esperienza di lavoro in cooperativa, riescono a trovare e mantenere un’occupazione.
Mi colpiscono in particolare i concetti di «utile» e di «volontariato» così come sono evocati da Cantone e in particolare la tesi che nelle cooperative di tipo B non «ci dovrebbe essere utile». Le cooperative sociali sono imprese, e quelle di tipo B in particolare devono garantire ai propri lavoratori (inclusi gli svantaggiati) un regolare salario e fare investimenti anche impegnativi. Per ripagare gli investimenti, quindi, esse devono generare un profitto. Ciò che distingue le cooperative sociali non è il fatto di non fare utili, ma piuttosto quello di non poterli redistribuire se non in minima parte.
E soprattutto di non poter distribuire il patrimonio in caso di scioglimento o di alienazione della proprietà dell’impresa, come invece possono fare le imprese lucrative.
Secondo la riflessione in corso da tempo – ben prima del verificarsi dei recenti episodi di corruzione – il modo migliore per gestire i rapporti tra cooperazione sociale e pubbliche amministrazioni non è quello del ricorso generalizzato a gare competitive. L’esperienza degli ultimi vent’anni indica, anzi, che è stato proprio il massiccio ricorso alle gare, spesso al massimo ribasso, che ha snaturato il modello originario della cooperazione sociale (facendogli perdere il contributo del volontariato e l’attenzione ai bisogni del territorio) e ha favorito il formarsi di grandi soggetti cooperativi che «si improvvisano per fornire servizi».
La soluzione richiede il ricorso a strumenti diversi, basati più sulla cooperazione che sulla competizione, a partire dalle molte esperienze positive. Occorre innanzitutto rispettare la legge che non consente alle pubbliche amministrazioni di affidare a cooperative di tipo B la gestione di servizi sociali. Per gli affidamenti di questi ultimi vanno quindi privilegiati gli accreditamenti dei soggetti di offerta basati su precisi parametri di qualità e prezzo, pratiche di co-progettazione e di successiva gestione condivisa. Una procedura quest’ultima applicabile anche alle situazioni di emergenza. Per gli affidamenti a cooperative di tipo B, invece, ciò che oggi serve è il recepimento della norma comunitaria che consente alle amministrazioni pubbliche di indire gare riservate a soggetti che impiegano almeno il 30% di persone con difficoltà di accesso la lavoro, gestendo poi la loro assegnazione in modo trasparente, non necessariamente competitivo. Una possibilità già prevista dalla legge istitutiva della cooperazione sociale, prima contestata e ora rivalutata dalla stessa Unione Europea.